sabato 23 febbraio 2019

L'equivoco sulla cultura

L'equivoco sulla cultura è solo un aspetto, forse più evidente di altri, di un equivoco generale che consiste nel far coincidere quel che esiste, e che è sempre stato fatto, con il Bene.
Ma andiamo con ordine.
Nel gennaio scorso ho visitato il Museo Egizio di Torino, erano i primissimi giorni dell'anno. Il museo è stato ristrutturato e ripensato pochi anni fa. Il direttore, nell'audio-guida, spiega che si è deciso di dare inizio al percorso museale focalizzandosi sulla storia del museo, esponendo la biografia e le immagini dei fondatori, i primi pezzi della raccolta - cioè i pezzi accumulati per primi e i pezzi concettualmente fondativi. S'è perfino tentato, usando qualche armadietto ottocentesco, di creare una stanza del primigenio museo, un misto fra laboratorio d'antiquariato e caffè con antichità esotiche.Questa scelta dà un messaggio importante: la soglia d'entrata conta; il contesto è essenziale. La scelta è voluta e consapevole.

Negli stessi giorni, il museo ospitava una mostra sul tema della distruzione dell'arte. La mostra partiva dal presupposto che la distruzione ha molteplici cause: il saccheggio dei tombaroli, ma anche lo scavo archeologico autorizzato, la damnatio memoriae, ma anche il riuso di materiali o tele di manufatti precedenti da parte di artisti successivi. Ad esempio, prendiamo eventi diversissimi: la distruzione da parte dei talebani, nel 2001 dei due grandi Buddha in pietra di Bamiyan e il periodico inarrestabile crollo e disfacimento di ciò che resta delle case affrescate di Pompei... malgrado le diverse motivazioni e modi, questi due eventi ricadono sotto la medesima fattispecie di distruzione del patrimonio storico-artistico, per un eccesso di zelo religioso (i Talebani) o per totale mancanza di zelo storico (gli italiani). Che la distruzione avvenga per azione condivisa e diretta o per incuria individuale e disinteresse generale, l'esito è lo stesso: disfacimento. Ma disfacimento è anche la scoperta e lo svuotamento di una tomba da parte di una spedizione archeologica. E con questo il quadro diventa molto più complesso: diviene critica radicale alla modernità.

(curiosamente accade qualcosa di simile in ambito ambientale: i giapponesi distruggono l'ambiente collettivamente costruendo centrali nucleari in riva al mare; gli italiani individualmente - ma anch'essi per un malinteso senso di benessere di una comunità, quella che si arricchisce sul traffico dei rifiuti - seppellendo tonnellate di rifiuti tossici sotto le terre fertili che li nutrono da millenni). 

Il giorno dopo visito la GAM (galleria di arte moderna). L'avevo vista, l'ultima volta, quindici anni prima, ed era tutt'altra cosa. Il pieghevole spiega che la nuova direzione ha abbandonato, in linea con le recenti correnti esegetico/museali, ogni esposizione tematica/concettuale a favore della tradizionale impostazione storicistica - direi addirittura documentaria - che caratterizzava il museo fino ai primi anni novanta del XX secolo. A ciò si aggiungano le frequenti parentesi sulla storia dell'edificio GAM e delle sue ristrutturazioni, che inframezzano la visita.
Questa ripresa dello storicismo alla GAM - che ingenuamente reputavo inevitabilmente sperimentatrice - fa il paio con quanto visto al Museo Egizio e rimanda più in generale all'esaltazione del contesto, soglia o cornice del fatto storico: la contestualizzazione storica in quanto elemento più tangibile e verificabile del fatto storico stesso. Il "perché siamo qui" è una riflessione rassicurante e benevola, nutrita del fatto inoppugnabile di esserci. Meno inoppugnabile è la raccolta, l'insieme di oggetti e fatti storici - le opere della collezione - sui quali permane un consapevole arbitrio.

(Questa virata sullo storicismo appartiene più in generale alla cultura, al pensiero politico, economico e sociale dell'Italia contemporanea. E' espressione di una rinuncia a guardare avanti; ed è espressione di un rifiuto radicale dei tempi presente e futuro, dell'oblio necessario a proseguire, a progettare e a rimettersi in gioco. Il Bene, in tale contesto, coincide con ciò-che-è-noto e con il perché-è-noto. E questo atteggiamento mentale si spinge fino al punto di porre in critica i processi antichi del rendere noto e di esplorazione dell'ignoto, che sono intesi come violazione dell'esserci o della natura.)

Ma che ne può essere di una civiltà in cui l'organizzazione dei fatti storici appaia più solida dei fatti stessi non in prospettiva futura - non sulla scorta di un ideale da realizzare - ma piuttosto sulla base di ideali esistiti, perseguiti da esseri umani nostri predecessori?
Se le idee del passato sono più solide delle testimonianze del passato - le quali possono essere ideologicamente manipolate - quale concezione dobbiamo avere del presente? E del futuro? Il ripetersi uguale a se stesso di un Bene sclerotizzato?
E' questa ideologia che sta mettendo in crisi la classe dirigente italiana. Il ritenere che le idee valgano più dei fatti, che questi siano meri accidenti e le idee eterne. E che le idee eterne siano inobliabili.

giovedì 21 febbraio 2019

Sovranisti indebitati?

Non mi interessa la fazione politica.
Potete essere sovranisti o europeisti; di destra, di centro, di sinistra o indipendenti. (Io non parteggio: sono ancora più indipendente di chi si dichiara indipendente).
Ma alcuni fatti sono inoppugnabili. Fra gli altri uno in particolare:

Non si può essere sovranisti e super-indebitati!

Si tratta di una contraddizione insanabile. Pensiamoci un attimo:
a. un sovranista vuole essere padrone a casa propria: controllare chi/cosa entra e chi/cosa esce; cosa si fa in casa; lo stile di vita degli abitanti della casa, eccetera... Vuole essere sovrano, padrone di sé e delle sue cose. Giusto? Giusto.
b. un padrone di casa super-indebitato non è più il padrone di casa: la casa è già o sta per diventare, o può essere pignorata da un momento all'altro dai creditori. Giusto? Giusto.
Quindi, come può un sovranista indebitato accettare di rimanere tale? O cessa di essere sovranista, e accoglie le richieste dei creditori (o di chi possiede la fiducia dei creditori), oppure estingue il più rapidamente possibile il suo debito.
Ma l'attuale governo italiano cosa fa? Avanza pretese sovraniste e nel contempo aumenta l'indebitamento pubblico!
Quello che fa è impossibile, una presa in giro, una sciocchezza: lo capirebbe anche un bambino.
Eppure...

L'ITALIA OGGI. Abbiamo qui un padrone di casa che non può decidere quasi nulla su casa sua se non a patto di ricorrere alla violenza fisica nei confronti dei creditori. E anche qualora prevalesse, trovandosi nelle condizioni di non poter mai più chiedere nulla a nessuno...
Altri paesi sovranisti, come l'Austria, hanno avviato una politica coerente di riduzione del debito pubblico. Ciò permetterà loro di non dover sottostare a ogni e qualunque richiesta arrivi dalle fazioni politiche che rappresentano gli interessi dei creditori.

Il buon livello di consenso politico dell'attuale maggioranza di governo avrebbe dovuto suggerire alle forze politiche maggioritarie di avviare immediatamente una politica di riduzione del debito pubblico, perlomeno al fine di attuare scelte sovraniste sostenibili.
Invece, paradossalmente, il consenso è utilizzato per creare un inevitabile dissenso, dovuto al fatto che alla fine - al netto delle chiacchere, delle ideologie, dei media e dei social - le istanze dei creditori prevarranno.

mercoledì 6 febbraio 2019

Sul cosiddetto "reddito di cittadinanza"

Il cosiddetto "reddito di cittadinanza" è in realtà un molto più prosaico "sussidio", o "assegno sociale". Ma è significativo che i suoi fautori lo chiamino proprio così: "reddito di cittadinanza".

Il "reddito", in primo luogo, è "l'utile che deriva dall'esercizio di un mestiere", scrive la Treccani. Solo secondariamente la parola "reddito" è associabile a una "rendita", come può essere una pensione, la quale va a formare in effetti il "reddito" annuale di un pensionato.
Nel campo semantico del "reddito", come pure nella "rendita", sono impliciti il "ritornare" e il "rendere", termini che implicano necessariamente lo scambio, ben evidenziato dal prefisso "ri-/re-". "Rendere" non è solo "dare", è dare poiché si è avuto o anche, per il recipiente, avere per aver in precedenza dato. In quest'ultimo senso una pensione è, anche linguisticamente, un reddito legittimo: un avere in quanto si è in precedenza dato (a patto di aver dato abbastanza...).

Ma il "reddito di cittadinanza" è un dare anche a chi non ha mai dato, o a chi non deve dimostrare di aver dato qualcosa. Prescinde da ciò che si è fatto, da qualunque scambio; e quindi non è, in senso stretto, un reddito. Quest'assenza dello scambio emerge prepotentemente, nella coscienza stessa dei promotori del reddito di cittadinanza, nell'esigenza di far fare qualcosa a coloro che lo percepiscano, potendosi altresì accertare che questo qualcosa sia stato fatto... è la polemica contro il "divano"; se l'avessero semplicemente chiamato sussidio o assegno sociale, anziché reddito, il problema sarebbe molto meno evidente.

Sulla "cittadinanza" c'è moltissimo da ridire (ma poco da ridere, purtroppo), anche tralasciando il fatto che il reddito "di cittadinanza" non può andare, per ragioni costituzionali, solo a chi possiede la cittadinanza (anche se i legislatori farebbero carte false purché fosse così).
Com'è risaputo la Costituzione equipara gli stranieri - di fatto tutti i residenti - ai "cittadini" in quanto a diritti fondamentali. Tuttavia in Italia è in vigore uno jus sanguinis e pertanto solo chi è figlio di italiani nasce italiano, quanto a cittadinanza; per chi ha la ventura di nascere in Italia da genitori stranieri, oppure, ancora peggio, di venire a vivere e lavorare in Italia essendo nato all'estero, diventare cittadini italiani è un calvario.

Ora, collegando i puntini, è facile e intuitivo pensare che il reddito di cittadinanza sia in realtà un reddito ideato e idealmente riconoscibile in base a un diritto di sangue. E io credo che perfino i leghisti che meno apprezzano questo istituto, colgano tuttavia, più o meno consapevolmente, il rimando al diritto di sangue, implicito nell'uso della parola "cittadinanza", e così caro al loro sentire. Pensiamo un attimo al meccanismo retrostante: una quota parte dei lavoratori stranieri in italia - diciamo il 10% ? - finanzia per mezzo del valore aggiunto generato dal loro lavoro - un reddito attribuibile per diritto di sangue... Ora, pur con tutti i distinguo del mondo, io faccio fatica a non vedere in questo, mutatis mutandis, la ripresa dell'antico istituto della servitù della gleba, a una vera e propria corvée, imposta con la forza e mirante a garantire il benessere del padrone per diritto di nascita.

Ma, si può obiettare, il reddito di cittadinanza va solo ai poveri, ai privi di altri mezzi di sussistenza: quasi una corvée alla nobiltà decaduta: che è proprio ciò che sperimentano molti italiani arrabbiati: una caduta dal benessere, o da un relativo benessere, che sembrava conquistato per sempre.

Vale la pena di ricordare che la letteratura italiana nasce con il dolce stil novo. E uno dei motivi ricorrenti del dolce stil novo è la nobiltà d'animo indotta dall'amore: una nobiltà che nulla ha di inferiore o da invidiare alla nobiltà di sangue; con la quale può anzi competere ad armi pari nello spirito e nel diritto all'amore.

Tutto ciò per dire che nelle italiche vicende la nobiltà di sangue - di cui lo jus sanguinis di cittadinanza e quindi il reddito di cittadinanza sono i legittimi eredi - è sempre stata la cifra del potere; il retaggio feudale autoproclamantesi giusto e migliore di tutti. Con il quale i poeti del dolce stil novo, e di nuovi noi oggi siamo costretti a confrontarci.     

Destra, sinistra e codici di condotta

La polarizzazione destra/sinistra nell'occidente contemporaneo è uno strano anello ricorsivo. L'economia non vi gioca quasi più alcu...