lunedì 23 dicembre 2013

Russia e Italia, andata e ritorno al feudalesimo

Feudalesimo e rivoluzione in Russia
E' forse abbastanza noto che la rivoluzione russa del 1917 non avvenne in un paese dominato dalla classe borghese, come avrebbe voluto il materialismo storico, bensì in un impero monocratico dominato da un'aristocrazia feudale in disfacimento. E' importante ricordare questo fatto perché fra le molte "inesattezze" e i numerosi "abbagli" della teoria marxista c'è pure questa: la necessità di una fase borghese come preludio al dominio della classe operaia.
Dunque, in Russia avvenne che l'aristocrazia feudale fu cancellata e subissata e sostituita con un sistema completamente nuovo. O almeno: in apparenza nuovo. In realtà pochi mesi, al massimo pochi anni, dopo la rivoluzione e al netto di guerre e carestie intercorse, i rivoluzionari russi riproposero sotto altra veste l'unico sistema politico che la civiltà russa avesse conosciuto e metabolizzato fino ad allora: il feudalesimo. Il risultato fu che i principali funzionari e mandarini del partito occuparono le alte cariche dello stato sovietico... le stesse alte cariche che, prima della rivoluzione, erano detenute dai nobili di campagna - secondo il grado - trasferiti a San Pietroburgo. In sostanza la rivoluzione ripropose una nuova edizione del libro russo, cambiando la copertina, i font, le dimensioni della pagina, ma lasciando immutato il contenuto.
Vogliamo una riprova? Non appena l'URSS finì disfatta (1991), per prima cosa i grandi burocrati del KGB e vicini al comitato centrale si appropriarono in forma monopolistica delle ricchezze russe, diventando i cosiddetti "oligarchi", l'ennesima riedizione della stessa figura di aristocratico feudale.

... e in Italia?
Dopo la fine della II guerra mondiale, l'Italia era a metà del guado. La maggior parte del paese (a nord ma anche a sud) aveva abbandonato da secoli il feudalesimo ed era nata una classe borghese o almeno protoborghese. Forse limitata nei mezzi e indebolita dalla lunga frammentazione politica della penisola, ma per il resto borghesia a tutti gli effetti, o aspirante tale. In parti minoritarie del paese, soprattutto in alcune campagne meridionali ma anche in enclave settentrionali, permaneva il dominio di un'aristocrazia terriera non molto diversa dalla feudalità.
In precedenza, la rivoluzione industriale per prima aveva provveduto a far metabolizzare agli italiani il passaggio dal dominio terriero al dominio economico borghese. Successivamente il fascismo fu, per molti versi, un reflusso di tale processo... un estremo tentativo della possidenza e della piccola borghesia di occupare i luoghi di potere dello stato in modo aristocratico ovverosia imponendo se stessi sugli altri e attribuendosi una superiorità legalizzata, trasmissibile e familiare, inappellabile e sprezzante. Questa prospettiva affascinava molti vecchi fascisti anche delle classi apparentemente più liberali come i professionisti. Il tentativo andò male complice l'egocentrismo del capo e la guerra fallimentare contro le potenze liberali.
Ma torniamo al dopoguerra. Dagli anni cinquanta in poi, come noto, gli intellettuali italiani e la cultura italiana furono sempre più marcatamente dominati dal pensiero di sinistra/bolscevico. Lo spazio del pensiero liberale, ma anche quello di un vero socialismo riformista (troppo sarebbe dire "keynesiano") compatibile con un sistema economico libero, furono sempre più compressi; alla peggio potremmo dire che neppure esistettero mai. La fine degli anni sessanta e gli anni settanta videro il culmine del dominio dell'intellighenzia di sinistra.
Tale intellighenzia aveva nell'Unione Sovietica, da principio esclusivamente poi con qualche voce critica prontamente stroncata, il proprio faro, ovvero il "sole" dell'avvenire... malgrado tutto ciò di violento e inopinato in azione oltrecortina fosse cosa nota. Il dominio della cultura di sinistra filosovietica continuò a esistere anche negli anni ottanta (e udite, udite, ancora oggi ne sopravvivono corposi - è il caso di dire - "residui").
E qui veniamo al vero problema: il modello statale sovietico, che in realtà era una riedizione del feudalesimo russo, divenne per molti intellettuali italiani un modello DA IMITARE, EQUO, AMMIREVOLE! Col bel risultato che i ragazzotti occupanti le piazze negli anni sessanta e settanta, passati agli uffici pubblici di ogni ordine e grado hanno riproposto al paese, per decenni, il modello sovietico-feudale: impiegato pubblico = buono e dotato di un impiego desiderabile e inalienabile; dirigente pubblico/professore ordinario / magistrato / primario / generale = buonissimo e inappellabile, con blandi o anche forti diritti di carica e nepotistici; rappresentanti del popoli (politici) = buoni e onesti solo se intenzionati a difendere e promuovere il sistema "feudale", altrimenti cattivi perché al servizio dei cattivi; grande imprenditore = cattivo, affama-popolo, doppiogiochista, sfruttatore, pronto alla fuga; piccolo imprenditore / contadino proprietario = cattivo, evasore, furbo arraffatore, ignorante analfabeta.
Insomma l'intellighenzia italiana ha riportato il feudalesimo in Italia suggendolo direttamente dalle mammelle della grande madre Russia. L'esito è un paese, il nostro, immobile, retrocedente anziché incedente. E non mi pare possibile uscirne fino a che non sarà scomparsa l'intera generazione che prese a campione un così cattivo modello per plasmarsi su di esso.   

venerdì 20 dicembre 2013

Il reddito di Bortolussi, paladino dei poveri artigiani...

Apprendo dal quotidiano locale che il sig. Giuseppe Bortolussi è il più facoltoso consigliere regionale del Veneto. Il suddetto vanta niente po' po' di meno che 619.800 euro (pari a circa 24.600 euro NETTI al mese, senza calcolare la diaria dei consiglieri regionali) di reddito imponibile relativo all'anno 2012.
A informarsi su chi sia costui, bisogna dire che la notizia sorprende un poco. Bortolussi svolge la professione di "segretario" della CGIA di Mestre, una potente società collaterale della Confartigianato Veneta.
Quello che sorprende è il fatto che un giorno sì e un giorno no il centro studi della CGIA di Mestre occupi i giornali, le TV e le radio con scoppiettanti news relative a quanto gravino le tasse e le imposte su artigiani, piccole e piccolissime imprese... che insista su quanto sono bassi i redditi medi reali di detti piccoli imprenditori. Ora, che il segretario di tale organizzazione, la quale evidentemente si regge sulle tessere degli iscritti alla confartigianato, guadagni venti o trenta volte il reddito medio di un artigiano può lasciare un po' perplessi. Altri direbbero meravigliati... eppure è proprio così.
Rimaniamo in attesa di sapere, da una delle news del centro studi CGIA di Mestre quanto pesi nelle tasche di ciascun artigiano il reddito del sig. Bortolussi... al netto e al lordo dello stipendio di consigliere regionale e magari aggiustando detta cifra sui risultati, in termini di calo della pressione fiscale, ottenuti dalle campagne martellanti della CGIA...

martedì 17 dicembre 2013

E dài con l'esortazione a emigrare!

Non accenna a smaltirsi l'esaltazione nazionale e massmediatica per i giovani italiani che cercano fortuna all'estero. Si tratta di un fenomeno che dovrebbe essere contrastato, criticato, analizzato amaramente da chi ha a cuore le sorti del paese.
Invece è un fenomeno che gli opinionisti, i giornalisti, i politici, gli imprenditori e perfino i camionisti e le massaie esaltano; tutti esortano i giovani ad andarsene ed esaltano chi li esorta... possibile?
L'emigrazione è da sempre una valvola di sfogo del malcontento sociale. Ciò significa anche che i paesi che risolvono il proprio malcontento per mezzo dell'emigrazione evitano di dover prendere provvedimenti più drastici (leggi "riforme vere") per contrastare lo stesso malessere. In altre parole, ho l'impressione che coloro che inneggiano all'emigrazione siano soprattutto interessati a risolvere i problemi italiani senza dover cambiare nulla a proprio detrimento. Solo in questo modo si spiega l'esaltazione di tanti sessantenni per i giovani che se ne vanno; come dire: "andate, andate... andate a rompere i coglioni da un'altra parte"... sublime tecnica, non c'è che dire...

martedì 3 dicembre 2013

Controcorrente: e se fosse lo stato a pagare le tasse ai cittadini?

Premetto che considero il reddito di cittadinanza un'aberrazione. L'unico argomento a suo favore è di ordine economico: porre milioni di cittadini nelle condizioni di concorrere alla macchina dei consumi. Forse tale effetto potrà aiutare il paese a uscire dalla crisi economica (io ne dubito); ma sicuramente si tratta di una scelta fondamentalmente immorale. Qui non si parla di pensioni, ovvero la giusta rendita accumulata da un lavoratore nel corso della sua vita professionale erogatagli nel momento in cui egli o ella non sia più in grado di lavorare. Non si parla nemmeno di pensioni di invalidità o di sostegno alla disabilità, altrettanti aiuti a persone che si trovano in oggettive difficoltà fisiche o mentali. No, con il reddito di cittadinanza parliamo di fare la carità (di più non sarà possibile) a milioni di persone che non sono troppo vecchie, né malate, né disabili, né infortunate e nemmeno pigre o deviate... Questa non può essere una soluzione moralmente accettabile nel XXI secolo! E' una roba da antico Egitto, da antica Roma. Assomiglia ai tributi in argento che Atene erogava ai suoi cittadini grazie alle miniere del Laurio. Assomiglia al panem et circenses.
Le scelte politiche immorali, se possono forse pagare sul breve periodo, sono sempre dannosissime sul periodo medio-lungo.
Piuttosto riduciamo del 50% la spesa pensionistica, portando tutte le pensioni di ogni ordine e grado a livello delle pensioni minime. Con quello che si risparmia si taglia la fiscalità sulle imprese consentendo loro di aprire e assumere. Piuttosto riduciamo del 10% tutti gli stipendi del settore pubblico sopra i 20.000 euro e con i risparmi facciamo quello di cui sopra.
Ciò premesso, mi piace talvolta indugiare nell'idea del mondo alla rovescia. L'idea di mondo alla rovescia è altresì detto, con espressione raffinata: "applicare un paradosso".
La nostra civiltà occidentale si trova al culmine di un frangente storico perfezionatosi nell'era contemporanea ma le cui radici affondano nel medioevo. In tale frangente storico i cittadini delegano la sovranità a un potere superiore al singolo (prima era Dio, per interposta persona, oggi è una carta sovrana e la "volontà del popolo"). L'esercizio di tale sovranità avviene con un procedimento pressoché invariato fin dall'era feudale: il cittadino paga un tributo e l'autorità eroga un servizio. Nel medioevo il servizio era la protezione (imposta) e il diritto di sfruttare la terra (tassa-concessione); il tributo avveniva tramite conferimento di beni o prestazione di servizi. Oggi i tributi sono imposte e tasse e i servizi sono sanità, scuola, strade, difesa militare ecc.
Sintetizzando oltremisura potremmo affermare che il sistema applicato consiste nello scambio di beni/servizi molto liquidi (singole prestazioni, beni alimentari o denaro) contro beni/servizi molto strutturati e poco monetizzabili (servizi generali, servizi e beni necessari in misura imprevedibili). Su questo punto le differenze fra sistemi liberali e sistemi dirigistici esistono ma non sono di ordine essenziale. Anche gli Stati Uniti e il Regno Unito erogano ai loro cittadini servizi non immediatamente monetizzabili, in momenti e per ragioni difficilmente prevedibili e quindi non quantificabili a priori. La "non-quantificabilità" è la cifra di tutti i servizi erogati dagli stati moderni; ed è al tempo stesso il tallone d'Achille di chi detiene la responsabilità politica.


venerdì 29 novembre 2013

Scambiare la causa con l'effetto - segnali di decadenza

La lunga crociata contro la "Casta" è un vivido segnale di decadenza di questo paese.
Sorprende che nessuno se ne accorga. Con frequenza martellante gli editorialisti-fustigatori della classe dirigente italiana inveiscono contro l'inettitudine dei governanti, degli imprenditori, dei grandi burocrati.
Ne additano l'avidità, l'indecisione, l'impreparazione, la superbia, le vanterie, il pressapochismo, l'arroganza, la superficialità, l'ingenuità, la corruttibilità... tutti difetti immani, non c'è che dire.
Il problema è che tutti questi difetti sono diffusi a ogni livello della popolazione italiana. Non sono "patrimonio" esclusivo delle classi dirigenti. Possibile che nessuno se ne renda conto?

Vedo scuole superiori dove le ragazze e i ragazzi vanno sfoggiando cellulari di ultima generazione, capi firmati, sul possesso dei quali misurano il valore dei loro simili; vanno truccate o discinte, i ragazzi mostrano le mutante o insultano apertamente gli insegnanti in quanto percettori di stipendi miserabili.... Vedo i presidi immobili e impotenti per timore di ritorsioni o di perdere studenti o di finire sui giornali.

Vedo medici negli ospedali che rifiutano di operare per timore che un qualunque pretesto accampato dai parenti dei degenti li costringa a ingenti risarcimenti. E vedo parenti calcolare il sistema di spillare più quattrini possibili dalla malattia dei congiunti. Li vedo indignarsi di fronte alle lettere di dimissioni dei parenti non autosufficienti perché costretti a farsene carico...

Vedo bar che vendono mentine e sigarette collocare 3-4 slot machine alle quali siedono pensionate e pensionati fin dalle 9.00 di mattina. Vedo aprire sale gioco in quartieri residenziali dove vivono famiglie con figli giovani e incerti.

Vedo i giornali seri di questo paese zeppi di pettegolezzi e nudità femminili; li leggo inneggianti e privi di indignazione in merito alla condotta fuori le righe di calciatori, rampolli di imprenditori, vallette. Li vedo oscuramente osannare lo stile di vita di questi personaggi, le loro vacanze, le loro automobili, i loro vestiti.
In generale i mezzi di informazione sono improntati ad esclusiva esaltazione di novità tecniche/tecnologiche, mode e tendenze, attività di svago e divertimento.... mentre su impegno, dedizione, altruismo, responsabilità, scetticismo, determinazione non è spesa che mezza parola, quasi per sbaglio e sempre in riferimento a qualche tema religioso/pietistico/sociale percepito comunque come lontano e incomprensibile. Fiction e programmi televisivi sono improntati secondo le stesse logiche appena descritte.

Vedo manifestazioni e proclami a difesa di minoranze di qualunque tipo sempre e costantemente sopra le righe, all'insegna della devastazione dei giudizi consolidati e del ragionamento coerente, concepiti come tradizionali e convenzionali e pertanto nemici. Quasi che giudizio e ragionamento coerente non potessero in alcun caso portare vantaggio a una causa minoritaria.

Leggo i regolamenti di tanti comuni italiani e vi riconosco solo pratiche coercitive, punitive e di tutela degli interessi economici di negozianti che vendano alcolici e residenti in possesso di un garage nel centro storico, quasi che la città non fosse un luogo di convivenza civile reale ma un luna park, un grande centro commerciale o un museo: un luogo in cui spendere denaro sporcando nella misura prestabilita.
Vedo i comuni tollerare serate dedicate alla diffusione di superalcolici fra i giovani o agli acquisti a metà prezzo, sempre in nome dei vantaggi economici connessi. E li vedo penare per investire anche un solo spicciolo in manifestazioni culturali impegnative, sempre viste come "parziali" rispetto all'imparzialità del denaro. Sento le organizzazione formate a tutela degli interessi di negozianti o residenti chiedersi: "A chi interessa? A chi serve?" e non sento rispondere nulla da chi avrebbe l'obbligo di dire qualcosa...

In altre parole vedo una tolleranza diffusa, uno sfruttamento da non ostacolare, e anzi un invito/esaltazione di avidità, indecisione, impreparazione, superbia, vanterie, pressapochismo, arroganza, superficialità, ingenuità, corruttibilità. Vedo associazioni, rappresentanti, giornali, opinionisti, pubblici ufficiali, accademici difendere le molteplici manifestazioni popolari di tutti questi difetti. Vedo tutti costoro tollerare solo ciò che ha risvolti economici - l'imparzialità del denaro - e bollare come "tradizionalista", "vetero-cattolico", "conservatore", "noioso", "idiota", "miope", "ottuso", "perbenista", "conformista", "bigotto e ignorante" ogni sostenitore di comportamenti dettati da principi, da senso del dovere, da senso di correttezza, da sobria ragionevolezza, da un senso del decoro percepito dal senso comune non deviato, prima ancora che descritto o descrivibile in modo articolato.

Io vedo tutto questo e mi chiedo che senso possa avere indignarsi o meravigliarsi se le stesse persone esposte a tutto ciò, alle quali ogni nefandezza morale è offerta e garantita quando non rivestano alcun ruolo pubblico, non diventano per magia dirigenti lungimiranti e onesti nel momento in cui devono occuparsi del bene pubblico.
Ma vi pare sensato?

martedì 26 novembre 2013

Fukushima e la Terra dei Fuochi... qualcosa in comune

Alcuni economisti e geografi amano soffermarsi sui concetti - invero assai astratti - di società rigide versus società flessibili, ovvero società a gestione centralizzata e ordinata versus società a gestione policentrica e caotica.
Esempi di società umane del prima tipo si troverebbero in Asia, e specificamente in Cina e in Giappone; esempi di società del secondo tipo sarebbero in Europa, per esempio in Italia e Francia.
Tipicamente una società rigida è molto efficiente e altamente competitiva sul breve periodo e ha il suo limite principale nell'eccessiva centralizzazione: quando il centro decide tutto e la periferia esegue senza un sussulto, una decisione sbagliata del centro ha ripercussioni incalcolabili e inevitabili sul destino dell'intero sistema. Un esempio lampante di questo è il dorato isolamento voluto dalle classi dirigenti giapponesi e cinesi durante parte del basso medioevo e tutta l'età moderna... l'isolamento provocò una stasi tecnologica che nell'ottocento mise i popoli orientali - in precedenza tecnologicamente superiori - in balia dell'Europa occidentale.
Viceversa una società flessibile, o caotica, è poco competitiva e disorganizzata sul breve periodo, ma è capace di rapidi cambiamenti ed evita di incorrere troppo a lungo in errori macroscopici. L'esempio è l'Italia rinascimentale divisa, anarcoide, faziosa ma anche inventiva e fucina del futuro europeo.

Orbene i fatti recenti in due luoghi del mondo molto distanti fra loro sembrano confermare questa tesi: mi riferisco a Fukushima (località giapponese nella quale una centrale nucleare, investita da un'onda anomala, ha fuso il nocciolo radioattivo inquinando in misura non ancora calcolabile le acque dell'Oceano Pacifico e la terra circostante) e alla cosiddetta Terra dei Fuochi in Campania (dove per decenni la malavita italiana ha interrato i rifiuti di mezza Europa).
1. Entrambe le località sono interessate da fenomeni di inquinamento della terra e dell'acqua causati dall'uomo e pressoché irreversibili.
Nel caso di Fukushima, l'inquinamento è stato prodotto per volontà centrale, dalla politica economica di uno stato che ha preso decisioni mirate; nel caso della Terra dei Fuochi, l'inquinamento è il frutto di una decisione decentrata, illegale, caotica e alternativa rispetto al potere centrale... decisione a cui il potere centrale non ha saputo/potuto opporsi.

(- inciso nazionale: vale la pena si notare che molti italiani non accetterebbero di porre la questione in questi termini perché direbbero: Fukushima è una disgrazia... ovvero quando il "Caso" intralcia l'opera di uomini di buona volontà; laddove invece la Terra dei Fuochi è un crimine, ovvero l'opera di uomini malvagi. Serve dire che tale impostazione è sommamente ingenua? Come se la Costituzione di un paese e l'ordine pubblico fossero qualcosa di più sacro di una mera convenzione... utilissima, ma pur sempre, solo, una semplificazione della realtà, con tutti i rischi e i limiti del caso)

2. Dietro le catastrofi di Fukushima e della Terra dei fuochi c'è una chiara e dichiarata motivazione economica. La centrale nucleare giapponese e il traffico di rifiuti italiano hanno arricchito singoli individui e intere comunità... di conseguenza hanno prodotto coesione sociale, benessere, ordine pubblico, contribuendo indirettamente a far prosperare molte attività non inquinanti.

(- secondo inciso nazionale: mi si dirà che in effetti senza il caso dello tsunami, l'incidente di Fukushima non ci sarebbe stato, laddove l'esistenza della Terra dei Fuochi non dipende da alcun frangente naturale. Rispondo che questa è proprio la differenza fra società rigide e flessibili. Se nel 1853 il commodoro Matthew Perry non fosse arrivato con le navi da guerra nel porto di Edo, il Giappone sarebbe ancora un arcipelago isolato dal resto del mondo? Probabilmente no, perché qualcun altro sarebbe arrivato a Edo al posto di Perry. Analogamente, se Fukushima non fosse stata investita da uno tsunami sarebbe ancora in funzione? Forse sì, ma rappresenterebbe ancora un problema irrisolto perché "invisibile" ai giapponesi, e prima o poi sarebbe andata com'è effettivamente andata. Viceversa, il problema della Terra dei fuochi è sempre stato visibile, e odorabilissimo, agli abitanti della Campania, e malgrado ciò per molto tempo nessuno vi si è opposto, si è ribellato perché in una società policentrica nessuno - nemmeno un boss della mala - riesce a imporre a tutti ed efficacemente una decisione radicale a meno che questa non rappresenti un vantaggio per molti individui all'interno della comunità. Questa è una differenza interessante... e più concreta di quella fra decisioni "legali" e "illegali")

3. Nella loro drammaticità, entrambi gli eventi di cui parlo hanno avuto dei risvolti positivi anche sul piano ambientale. Quali risvolti? Le centrali nucleari in Giappone hanno contingentato il consumo di combustibili fossili per produrre energia. Le discariche abusive in Campania hanno consentito al nord Italia e al nord Europa di liberarsi di milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi continuando a produrre in ambienti relativamente "puliti". Mi si chiederà se sto scherzando... certo che no! La concentrazione degli effetti negativi delle attività umane in un unico punto, anziché la loro diffusione su ampia scala, è una delle maggiori e più decantate efficienze della società e dell'economia contemporanee: si chiama "contenere il danno", "limitare gli effetti dannosi", e le due società tipo qui considerate l'hanno fatto egregiamente, sia pure con mezzi diversissimi. Si sono appropriate del business del "contenimento"... chi altro l'ha fatto? Quali colpe, fra le sue, sono un po' anche di altri?

4. Ma il vantaggio non finisce qui: sia Fukushima che la Terra dei Fuochi sono "esiti" ereditati dal passato, non sono "eventi" frutto di un mero presente. I rifiuti campani si sono accumulati negli anni ottanta e novanta; la centrale di Fukushima fu costruita negli anni sessanta. Nel frattempo, e proprio mentre le centrali nucleari e le discariche abusive si occupavano di "contenere il danno", si è diffusa una diversa concezione dei rifiuti solidi, il riciclo, la raccolta differenziata, il contenimento degli imballaggi; si sono diffuse l'energia fotovoltaica, la geotermia e altre tecnologie alternative al nucleare.

Una cosa che potremmo chiederci è questa: sappiamo sfruttare abbastanza bene le caratteristiche di rigidità e flessibilità che ci caratterizzano? Se nei popoli orientali il fatto di "sfruttare bene" qualcosa è insito nella natura stessa dell'essere società rigide; non altrettanto si può dire nei popoli occidentali. La mia intuizione è che la flessibilità debba essere sfruttata con la flessibilità, ovvero con la limitazione delle decisioni centralizzate a vantaggio delle iniziative singole e locali.

lunedì 18 novembre 2013

Segnali di decadenza: la delega di responsabilità

Leggo da mesi ormai le prediche di Galli della Loggia sul corriere in merito alla mancanza di una classe dirigente italiana. Molto è condivisibile, altro (poco) lo è meno; la cosa meno condivisibile è descrivere l'Italia di alcuni decenni fa come un luogo etico, ben organizzato, onesto, laborioso, privo dei difetti morali grandi e piccoli dell'oggi, affollato di gente in grado di provare sentimenti di onore e di vergogna... e contrapporle l'Italia di oggi svuotata e moralmente desertificata.
La debolezza di questo argomento dipende dal fatto che esso riprende il tòpos antico dell'età dell'oro, che degrada via via in età sempre più deprezzate e false. Ma si tratta di un luogo letterario, non di una valida descrizione della realtà; di una descrizione metaforica, priva risvolti pratici anche mediati, sebbene ricca di enfasi e pathos.
Io valgo e capisco molto meno di Galli della Loggia (il cui solo nome fa tremare), tuttavia dirò quel che penso: penso che i decisori italiani di oggi abbiano un solo grande difetto rispetto a quelli del passato: non decidono nulla.
La prima ragione per non decidere è il fardello della responsabilità connessa alla decisione. La scarsa considerazione di sé dei miei connazionali produce un curioso effetto: nessuno vuole prendersi la responsabilità di fare alcunché per non rischiare di essere accusato da qualcun'altro di inadeguatezza. Conseguentemente, appare logico e inevitabile, anche ai più intelligenti fra i miei connazionali, delegare le decisioni - non farsene carico - perché qualcun altro più preparato e adeguato possa occuparsene.
Si badi che stiamo parlando di una logica di ossequio al potere tipica di questo paese: se c'è un problema, chi deve occuparsene è chi può occuparsene, e non tutti possono... In linea di massima - questa è l'ultima tendenza - se chi se ne sta occupando è persona nota solo nell'ambito dei confini nazionali, allora si tratta di persona inadeguata; di persona che non può occuparsene.
Quanta differenza in questo con la logica statunitense o russa o tedesca o inglese! In tutti questi paesi si tende a fidarsi solo di connazionali, nei ruoli chiave delle decisioni, e si tende a diffidare degli stranieri e dei compatrioti fuoriusciti... il contrario che da noi.

Mi viene in mente un esempio di quanto ho detto: l'uscita dall'euro. Io non sono particolarmente euroscettico, ma determinati argomenti a sostegno dei benefici dell'Unione Europea mi irritano e disgustano.
Se un ingenuo interlocutore accenna ai vantaggi per l'Italia di un'eventuale uscita dall'euro, trova immediatamente il giornalista/opinionista di turno che lo avverte/minaccia dicendo che se l'Italia uscisse dall'Euro dovremmo tornare a controllare il saldo fra import ed export e a fare attenzione che il primo non superi il secondo per più di un trimestre.... la bilancia dei pagamenti. Dovremmo seguire il cambio. Ma ci rendiamo conto quale immenso carico di lavoro e di responsabilità ciò significherebbe? Il ragionamento implicito è che invece ora, essendo nell'euro, scarichiamo questa responsabilità su quanti si occupano della bilancia commerciale della UE... e non dobbiamo occuparcene. In sostanza l'opinionista si sofferma non sul vantaggio tangibile in termini economici ma su un vantaggio relazionale, uno sgravio pratico ma anche intellettuale e morale. Quasi dicesse: preoccuparsi è fatica, meglio lasciar fare agli altri.
E magari lo stesso opinionista si interroga, qualche giorno dopo, sui motivi del laissez faire e sulla corrività delle classi dirigenti italiane...

La cessione di sovranità all'Unione coincide in Italia con una parallela cessione di responsabilità decisionale... in tal modo noi tutti torniamo bambini e ci aspettiamo di essere protetti e accuditi da chi, pur non avendo particolare interesse nei nostri confronti, ha la capacità, la competenza per accudirci.
Nell'apprezzare la cessione della responsabilità decisionale l'intellettuale italiano trova il proprio ambiente ideale: un ambiente cortigiano in cui il poeta e l'onesto storiografo possono elogiare le decisioni già prese e costituite e deprecare l'azione del cortigiano infedele, del consigliere impreparato, avido o traditore che nulla sa e qualcosa di nuovo e difficile vorrebbe decidere. E Galli della Loggia, pur chiamandosi fuori dalle voci elogiative, nella sua affettata indignazione contro i "nostri" cortigiani, partecipa allo stesso gioco di cui critica i risultati.

venerdì 8 novembre 2013

Da esterofili a espatriofili - segnali di marginalità

Gli italiani, si dice, sono da sempre autodenigratori ed esterofili. Ce l'hanno nel sangue l'ammirazione-invidia per i vicini, da prima dell'unità nazionale. Ne fornisce una riprova indiretta l'emigrazione fra XIX e XX secolo che ha portato gli italiani in mezzo mondo: con maggior fortuna (USA, Germania, Australia) o minore (Argentina, Africa). Gli italiani se ne andavano in cerca di una terra migliore, meno avara, meno dura, più ampia e generosa della patria; dove la gente fosse più efficiente e rispettosa, le gerarchie meno immobili e severe, lo Stato non padrone crudele, ma padre premuroso.

Eppure, per alcuni versi, la cosa non è poi tanto vera...
Negli ultimi due anni si afferma un atteggiamento mentale curioso: l'esterofilia si trasforma in espatriofilia... a essere bravi non sono più gli stranieri, ma bensì gli italiani che vanno all'estero. Non importa cosa fanno realmente: se sono capitani d'industria o premi nobel per la fisica oppure, banalmente, bibliotecari, opinionisti, cuochi o addirittura camerieri diplomati: l'importante è che lo facciano in America o a Singapore.
Ieri c'era su una rivista l'ad della Fiat (qui) che premiava una dozzina di "talenti" italiani-in-USA (non italoamericani, che sono tutt'altra cosa) i cui profili non hanno oggettivamente nulla di invidiabile o particolarmente talentuoso rispetto a migliaia di italiani in patria.
Ora, io ricordo bene la formidabile efficienza dei tedeschi nelle parole di mio nonno; e trovo ancora accenti simili in uomini di mezza generazione successiva (settantenni). Di converso, negli uomini miei coetanei (37) e nei giovani, ma forse ancora di più nei miei genitori e loro coetanei, riscontro invece entusiasmo per coloro che se ne vanno, ammirazione, orgoglio ("i ricercatori italiani sono i migliori", "gli italiani all'estero sono apprezzati", "italiani fra i più preparati" ecc...); questo atteggiamento fa pendant con il periodico sfoggio massmediatico dei trionfi italiani nel passato, in coppia col quale l'espatriofilia acquista perfino una punta di nazionalismo elitario.

Sul piano individuale, il giovane italiano che va all'estero e/o chi ve lo spinge (i genitori) concepiscono come un torto la mancata affermazione di sé e/o del rampollo nella terra ricompresa dai confini nazionali (torto dimostrato dal semplice fatto che i genitori sono gente affermata e benestante, mentre i figli sembra non ce la facciano), e pertanto ne decantano le virtù in paesi lontani, dove nessuno del giro può comunque controllare.
A livello generale tale atteggiamento si trasforma in un crescente inneggio al se lontano che è diametralmente opposto al disprezzo o compatimento o pietà del se lontano che meditavano le famiglie degli emigranti all'inizio del XX secolo. Della mamma di Marco, protagonista dagli Appennini alle Ande, si diceva così: "poveretta è andata in Argentina a lavorare"; oggi sul giovane bisnipote di Marco si direbbe così: "nel suo ramo è il migliore; è andato in Cina a lavorare".
Ecco, siccome m'ero ripromesso di individuare i segnali della patria decadenza, questa espatriofilia è uno di quelli: una versione alternativa dello stesso complesso di inferiorità che era dei vecchi migranti italiani e che è dei nuovi immigrati in Italia. Ma forse con un peggioramento: checcé ne dicano i guru del marketing e della programmazione neurolinguistica, il "sapere di non sapere" è ammonimento più saggio del "credere di saperne più degli altri".

[modifica 11 Novembre] Eccone un altro sul Fatto Quotidiano

mercoledì 30 ottobre 2013

aspettando Robespierre (e perso Monti...)

In Italia, aspettando Robespierre, si tagliano teste (mediaticamente) un po' a caso. Robespierre taglierà sistematicamente.
Io penso che Monti sia stato la cosa più simile a Robespierre che abbiamo avuto da molti anni a questa parte. Per questo è caduto tanto in disgrazia presso grandi e piccoli elettori. Bastano queste sette cose a far capire quanto fastidio abbia dato (un fastidio che né Letta, né i 5 stelle, né Renzi, credo, riescono o riusciranno a dare):
1. l'IMU sulla prima casa: la sacrosanta tassazione del patrimonio accumulato (Robespierre 1)
2. la legge Severino (senza commento, Robespierre 2)
3. la scure sui soldi ai gruppi regionali, sia pure aiutato da scandali "fortunati" (Robespierre 3)
4. la legge di stabilità 2012 con il divieto per gli enti locali di costituire nuove società partecipate (poltronifici) e l'obbligo (disatteso) di sciogliere progressivamente le società in essere non strategiche.
5. Il limite dei 1000 euro sui contanti (tanto per farsi odiare dai commercianti).
6. Il controllo sistematico del fisco su tutti i conti correnti.
7. (non gli è riuscita, stava proprio esagerando...) il taglio delle province.

Se qualcuno si stupisce della damnatio memoriae su Monti, basta che si rilegga questi sette punti e ne avrà minuta contezza....
Gli italiani, beoti e approfittatori, inneggiano ai demagoghi antistatalisti e antipolitici di turno, ma quando si imbattono in qualcuno che davvero limita benefici e rendite di posizione, subito l'odiano e vogliono liberarsene...

martedì 29 ottobre 2013

Prima di Grillo, scrivevo su Berlusconi: "e gli italiani scelsero il caos"

'Mi affascina, lo ammetto, l'interrogarsi dei media stranieri sulla situazione politica italiana. Gli aggettivi si sprecano, in pura tradizione anglosassone: grottesco, surreale, patetico, incredibile, pittoresco, sbalorditivo, incomprensibile eccetera. A guardarla con un po' di gelo, la situazione italiana non è poi così incomprensibile. Tuttavia è alquanto singolare. Abbiamo due schieramenti: l'ordine e il caos. Nessun paese li ha. Quasi tutti i paesi hanno o due schieramenti dell'ordine (Germania, Gran Bretagna e altri) o due schieramenti del caos (nordafrica, Iran, centroamerica, ucraina, caucaso); gli USA, con i Tea Party potrebbero avere uno schieramento del caos, ma per il momento hanno due schieramenti dell'ordine. 
Che cos'è uno schieramento dell'ordine? E' un partito ordinato, con tutte le sue belle file, le sue gavette di partito, la gente che si iscrive al liceo e incolla manifesti o prepara volantini, poi dirige la sezione giovanile, poi entra in qualche ente/sindacato o in qualche comune o provincia e poi in regione o in parlamento e così via. In Italia sono così il PD e, in parte, la Lega. 
Un partito del caos è un partito dagli esiti al tempo stesso rivoluzionari e imprevedibili. Può essere guidato da uno solo (come in Italia il pdl) o da un gruppo in cerca di leader (un po' come il tea party americano). Nel partito del caos la carriera politica è arbitraria/casuale; la gavetta non serve a niente e non ha alcun valore perché i sostenitori del partito del caos sono rivoluzionari in fondo all'animo, vogliono che una o pochissime persone estirpino tutte le categorie, le articolazioni e gli ordinati privilegi che sembra loro di scorgere nei partiti dell'ordine. E, cosa più importante, non guardano ai metodi: ogni mezzo è buono per distruggere l'ordine, come vuole, appunto, il caos. Ma gli amici del caos sono anche imprevedibili perché guidati dalla volontà di uno solo (che per definizione è imprevedibile) oppure perché ondivaghi, facili al cambiamento nei metodi, sebbene indefettibili nel mirare a distruggere. Il distruttore, il paladino del caos, può servirsi di qualunque mezzo. Chi vuol far carriera nel caos dev'essere solo vicino al distruttore e assecondarne lo slancio distruttivo. Per il resto essi non contano, contano meno di nulla; guadagnano importanza se diventano essi stessi mezzi di distruzione (come le veline promosse a ministre e deputate): cancri devastati del valore e del funzionamento delle istituzioni. 
 Votando Berlusconi gli italiani hanno, con cognizione di causa, scelto il caos. La riprova? I conservatori che l'han votato non sono (perlopiù) affatto sconcertati dall'immoralità del nostro. Perché? Ma è ovvio, perché quell'immoralità fa parte del caos che essi hanno votato. L'hanno votato per quello: perché portasse scompiglio, criticasse i poteri dello Stato, facesse il gradasso con chiunque occupi ordinate posizioni di prestigio socio-economico, lentamente guadagnate, sudate oppure attese in fila o ancora ordinatamente ereditate ma comunque consolidate, autorevoli, paludate. 
In Berlusconi voleva esservi la vera rivalsa di chi non ha avuto voglia di studiare, o di chi non ha potuto farlo, di chi ha passato tanti guai economici inframezzati da rari successi, di quanti vedono nello stato di diritto una grande truffa ai propri danni. Berlusconi non deve fare nient'altro che portare scompiglio, che sputare sulle istituzioni, pisciare sullo stato, cagare in testa ai parrucconi. Se lo fa i suoi elettori lo amano e lo premiano. Forse alcuni speravano che Berlusconi decostruisse i privilegi con leggi opportune che scardinassero il potere e l'ordine di intere caste, che sbaragliasse il cartame dei boiardi di stato. Ma è ormai evidente che egli non vuole o non ha tempo di farlo. Preferisce spaccare tutto a calci: dove non arriva l'intelletto può arrivare il braccio, la stupidità. E tant'è: agli elettori va bene lo stesso, basta che il colpo vada a segno. Per questo egli fa quel che fa. Se non lo facesse deluderebbe i sostenitori del caos. Domanda: come se ne esce? Ci sono due modi: o tutti i partiti si danno al caos o tutti si danno all'ordine. A oggi la prima ipotesi è plausibile ma poco auspicabile, la seconda auspicabile ma poco plausibile. Ecco tutto, cari stranieri."'

[gennaio 2011, cit. da "BastaBerlusconi"]
Bene, il Movimento 5 stelle deve ancora decidere se appartenere al caos o all'ordine. Finora è stato del caos, e nel caos ha senso... diventerà dell'ordine?

mercoledì 23 ottobre 2013

"Effetto peste"

Ieri parlando con un collega sessantenne e poi come relatore di fronte a un'assemblea folta di altrettanto attempati, mi sono reso conto di una cosa: una delle cause dello sfascio italiano è l'"Effetto Peste". Nel Decamerone un gruppetto di giovani fiorentini si rifugia fuori città per sfuggire la peste. In vista della prossima dipartita i giovani si raccontano storie, si danno alla crapula e al divertimento.
Bene, in Italia oggi succede qualcosa di abbastanza simile, pur con rilevanti differenze. La somiglianza sta nel fatto che molti sessantenni (non tutti - è importante ricordarlo) affrontano il presente e il futuro in un'ottica pestilenziale:
"Cosa mi importa di inquinare il paese? fra qualche anno sarò morto, ci penserà chi viene...."
"Quasi quasi, con quello che ho accumulato mi licenzio ora, coi risparmi campo quei sei-sette anni finché non ho diritto alla pensione e che il mondo vada a rotoli..."
Ogni legge mirata a una migliore convivenza civile, a un miglior sistema sanitario, a un maggior rispetto dell'ambiente, a una maggiore equità generazionale è guardata con sospetto, irritazione o indifferenza.
Dagli anziani di destra ogni investimento o progetto di medio-lungo termine è vissuto come assurdo, stupido, illiberale e bollato come costruttivista, statalista, falsoprogressista.
Dagli anziani di sinistra analoghe azioni sono bollate come furbesche, interessate o guardate con sobrio paternalismo disinteressato, in realtà ostile; ancor peggio spesso son viste come idee capitalistiche, sfruttatrici, moderniste e inique.
In Italia il 33% della popolazione ha più di 55 anni. In gran parte si tratta di individui scarsamente interessati a ciò che avverrà fra 20 anni ma che in ogni caso non ha intenzione di investire energie, attenzione, tempo, coraggio in progetti di tale fatta. Che è disposta tutt'al più a barattare un po' di queste cose con progetti a 12-24 mesi, a farla lunga. Ecco la ragione dello sfascio italiano.

Un'altra modesta proposta, a tale riguardo, sarebbe quella di cambiare il meccanismo di voto: una testa un voto andava bene in società giovani e calde; in società vecchie e fredde non va più bene. Io propongo quindi di pesare diversamente i voti:

individuo 18-25 anni:                   il voto vale 1,25
individuo 26-45 anni:                   il voto vale 1
per ogni figlio minorenne:             il voto vale +0,5
individuo 46-59 anni:                   il voto vale 0,85
individuo >= 60 anni:                   il voto vale 0,65

Basterebbe creare schede di voto per ciascuna tipologia e consegnare quelle corrette al votante nel momento in cui questi si presenta al seggio.
Proposte di voto demografico (soprattutto in riferimento ai figli minorenni) sono già state formulate (vedi Demeny voting). Si veda per esempio: http://lettura.corriere.it/debates/non-e-giusto-che-tutti-i-voti-siano-uguali/
In generale l'idea che i minorenni non possano votare, né conti qualcosa di più il voto di chi deve preoccuparsi di loro, mi sembra un'aberrazione. In Italia la situazione è ancora più squilibrata se pensiamo che moltissima forza lavoro con meno di 45 anni è straniera e priva di diritto di voto. In tali condizioni gli se escludiamo i minori (18% della popolazione) e gli stranieri, gli ultracinquantacinquenni potrebbero essere, a spanne, il 50% dei votanti.

lunedì 21 ottobre 2013

Sulla riforma della giustizia: una modesta proposta

Si parla di riforma della giustizia. Una riforma ci vorrebbe, ma molto diversa dalle voci che circolano. 
Ci vorrebbe soprattutto un sistema maggiormente preventivo. Se è vero che chi ha già commesso un crimine ha molte più probabilità di commetterne altri rispetto a chi non ne ha mai commessi, allora dovrebbe esistere un'aggravante per chi commette volontariamente il suo primo reato. La gente incensurata dovrebbe avere enorme paura di commettere un crimine rischiando di pagarlo assai più salato di un quanto non sconterebbe un criminale incallito. Siano puniti duramente e senza sconti gli incensurati; si usi invece ritegno e pietà verso i recidivi, il cui destino appare ormai segnato invariabilmente.
Invece la giustizia italiana fa esattamente il contrario. Gli incensurati se la cavano con pene risibili e i recidivi con pene sempre più gravi. Ma in questo modo si punisce la natura umana anziché le cattive propensioni del libero arbitrio: un fatto senza senso.

giovedì 17 ottobre 2013

Inciso sulla critica politica postmoderna

Su gesti e occasioni dei 5 stelle valga quanto già detto in merito alle parole: contano di più i rimandi, le correlazioni diacroniche o citazionali, che il significato vero e proprio, nel contesto, nelle intenzioni.
Questa piega postmoderna della critica al movimento 5 stelle mi dà il destro per un breve inciso sulla decadenza italiana. Da un lato sono a chiedermi se ogni critica a ogni movimento politico sia necessariamente postmoderna; dall'altro se invece solo alcuni movimenti politici si attirino una critica postmoderna, mentre altri la incarnino a tal punto da non poterne diventare oggetto.
Questa seconda mi sembra l'idea giusta. Il PD, per dirla tutta, è la quintessenza del partito postmoderno. Così teso sempre ad assomigliare in tutto a X o nel non assomigliare in nulla a Y.
Viceversa il Movimento 5 stelle, come ogni movimento rivoluzionario in nuce, non può che essere oggetto di una critica postmoderna. Sbaglierebbe a esercitarla su altri, dal momento che ciò che deve interessargli è la storia anziché i libri di storia.
L'eccesso postmoderno nella critica ai 5 stelle funziona nella misura in cui infittisce la cortina di fumo sulle premesse, nell'esaltare il metodo sul merito, relegando quest'ultimo al dimenticatoio.
Non funziona invece - ma ciò è tipico del pensiero postmoderno - nel recare detrimento ai propri obiettivi. Nessuno crede davvero che Grillo sia fascista perché bolla qualcuno come "stronzo" durante un comizio. L'ascoltatore/lettore coglie immediatamente il risvolto postmoderno nell'osservazione e quindi può aderirvi per ragioni di orgoglio o superbia intellettuale, di antifascismo innato sempre e comunque, ma non arriva a ritenere che, in forza di quello "stronzo" Grillo sia davvero fascista... e per varie ragioni tutte in atto contemporaneamente: perché il fascismo è finito e perché erano altri tempi, perché Grillo non indossa la camicia nera, perché non è pelato ecc...
La critica politica postmoderna è un altro segno di decadenza nella vita pubblica italiana. La sua mancanza ci precipiterebbe in un contesto un po' anglossassone, americano, così naif. Ci si prenderebbe sul serio, parlandosi, parlando di progetti politici. Così non è coi 5 stelle.

mercoledì 16 ottobre 2013

Due o più parole sui 5 stelle / o del Metodo

Ammettere le premesse e il corollario descritti nel post precedente ci porta finalmente a discutere del metodo proposto dal Movimento 5 stelle.
Ovviamente ciò è vero rispetto al merito considerato. Vi sono altri temi, diversi dai problemi economici e morali dell'Italia, sui quali vi sono ampie divergenze all'interno del Movimento stesso (penso all'immigrazione, all'indulto, ecc...) il problema è che tutti questi diversi temi sono in realtà estranei al motivo per cui il Movimento 5 stelle è nato. Sono in qualche modo sovrastrutture: a dimostrazione di ciò: la principale argomentazione del Movimento su ciascun tema "secondario" è che i politici al potere (vedi premessa seconda e corollario) non hanno saputo risolverlo fino a oggi. Quindi in sostanza anche questi meriti, e altri che venissero, ricadono nei casi già descritti e chi è d'accordo sui casi già descritti difficilmente potrà non ammettere che in effetti tali problemi secondari non sono stati risolti.
Ma torniamo al metodo.
Osservo per inciso che la maggior parte degli editorialisti dei giornali invisi al Movimento (ma forse è ancor peggio nei giornali simpatici al Movimento, se esistono) concentrano il loro focus sul metodo dell'azione 5 stelle. Bersaglio di ogni critica e di ogni sarcasmo sono soprattutto il tono (volgare, arrogante, irriguardoso, ecc. ecc.) del Movimento 5 stelle e del suo leader carismatico, le parole, i gesti, le occasioni.
Sul tono ritorno avanti.
Sulle parole, vale notare che di rado interessa alla critica la connotazione lessicale, cioè il preciso significato delle parole usate dai 5 stelle (e dal loro leader) - così come si evince dal contesto o da ulteriori precisazioni degli stessi. Più spesso interessano le sfumature della denotazione, i significati secondari, apparenti, affini o storicamente sedimentatosi su ogni termine; le parole dello stesso Grillo sono spesso analizzate nei loro rimandi ad altri contesti narrativi o semantici, anziché per appurarne il valore semantico nel contesto in cui vengono utilizzate. Le parolacce ad esempio venivano ricondotte dai primi osservatori alla corrività fascista e mai lette come indicatori di un elevato livello di insofferenza rispetto a un determinato tema; tanto più che non in ogni post sul blog comparivano parolacce, quindi poteva avere un senso notare dove esse comparivano e perché.

lunedì 14 ottobre 2013

Due e più parole sui 5 stelle / o del Merito

Ho discusso per qualche minuto con un collega - un tipo idealista e piuttosto incline ad abbracciare le cause dell'ecologia e dello scetticismo verso la modernità (io li chiamo "quelli della mela verde"). Costui, con un passato nel centro-sinistra, misurando le parole e dopo una tormentata circonvoluzione, mi ha chiarito che in fondo gli unici coerenti, secondo lui, e gli unici innovatori sono in effetti i 5 stelle.
E io, che dei 5 stelle ho visto tanti difetti fin dal primo giorno (sono ben elencati qui: http://www.quitthedoner.com/?p=1268), siccome mi faccio prendere dal dubbio, mi son messo a pensarci su.
La premessa prima, su cui occorre trovarsi tutti d'accordo, è che le cose siano davvero disastrose come i 5 stelle le descrivono: paese allo sfascio, di fatto in default (bellino DiFattoInDeFault), corruzione a tutti i livelli, incompetenza, ladrocinio.
La premessa seconda, su cui occorre avere un accordo di massima è che la colpa dei fatti di cui alla premessa prima sia (almeno in buona parte) della classe politica e dei partiti politici (intesi come il 5% di persone che restano dopo aver sostituito il 95% degli esponenti) che hanno ottenuto molti voti negli ultimi vent'anni.
Chi sia d'accordo su queste due premesse indubbiamente può muovere ai 5 stelle solamente obiezioni di metodo, non certo di merito. Be', mi si dirà, è poca cosa (nemmeno tanto poca dico io)
Obiezione più forte sarebbe questa: d'accordo su queste premesse, ma chi mi dice che eliminare la classe politica di cui alla premessa due, sia sufficiente a cambiare le cose?
Risponderei: ovviamente nessuno. Le due premesse implicano solo che sia necessario farlo; non dimostrano che sia anche sufficiente. Mettiamo da parte questo fatto, per ora, ché ci torna buono dopo...

Dunque ammesso che sia necessario il merito posto dai 5 stelle, soffermiamoci sul metodo.
Prima di farlo occorre analizzare uno dei corollari alla premessa seconda: "La classe politica responsabile dello sfacelo non ammette in alcuna maniera tale responsabilità; tende ad attribuirla a terzi. Si considera, in malafede (o in buonafede, non fa differenza, vedi dopo), estranea agli errori e pertanto non ritiene necessario ritirarsi in buon ordine. Preferisce invece mantenere il proprio potere e i vantaggi economici connessi"
Io credo che questo corollario non possa essere rifiutato da quanti ammettono la premessa prima e seconda. Se infatti la classe politica si considerasse responsabile dei danni prodotti dovrebbe dar segno di responsabilità e lasciare la scena, i partiti dovrebbero sciogliersi e rifondarsi (e questo in parte succede senonché quando cambiano i partiti lo si fa per non cambiare gli uomini, vedi pdl, e quando si cambiano in parte gli uomini lo si fa per non cambiare la struttura dei partiti, vedi pd). Invece questo non accade, se non in modo parzialissimo e poco trasparente. Mi si dirà: perché un politico fallimentare dovrebbe lasciare? Da cosa gli deriva tale dovere? Rispondo: perché è intrinseco al meccanismo democratico che chi fallisce lasci o non venga riconfermato. La democrazia si basa, o dovrebbe basarsi, sulla valutazione dell'operato molto più che sul fascino o sul carisma del nuovo.

Un'altra obiezione è questa: può darsi che la classe politica attuale si consideri responsabile dei danni prodotti, ma decida (in buonafede, vedi sopra) di non lasciare; non tanto per mantenere i vantaggi economici annessi al potere ma per cercare di rimediare ai danni prodotti. Questo problema mi pare irrisolvibile: le private intenzioni sono troppo numerose e aleatorie per entrare con qualche legittimità in un dibattito politico... [continuo nel prossimo post]        

mercoledì 9 ottobre 2013

L'errore dell'imprenditore

Il principale abbaglio della classe imprenditoriale che ha dato il suo sostegno a Berlusconi è dovuto a un'erronea valutazione del Berlusconi imprenditore più ancora che all'incapacità di vedere gli interessi privati del Berlusconi politico. L'attività politica è sempre mascherabile... se non fai qualcosa, o la fai male, puoi sempre dire che è colpa dell'opposizione o dei magistrati, dei complotti internazionali o di chicchessia.
Ma la storia imprenditoriale di Silvio l'avevano sotto gli occhi, e si sono fermati alla superficie.
Come poteva modificare in senso liberale il paese un uomo che ha costruito le proprie fortune proprio sull'illiberalità italiana, gli intrichi politico-aziendali, le corsie preferenziali dei politici ai loro amici? Come avrebbe potuto un imprenditore di tal fatta mettere fine al rapporto fra politica e impresa che impesta questo paese?
Ma, mi si dirà, una cosa è la simbiosi perversa fra impresa e politica, altra cosa la sostanziale illiberalità del sistema burocratico italiano. E io dico che in effetti si tratta di due meccanismi analizzabili separatamente ma che agiscono ciascuno come motore occulto (sotto il cofano) dell'altro.
L'intrico burocratico e vessatorio richiede che l'impresa ricerchi vie preferenziali attraverso il canale politico; una volta che le ha trovate si serve dello stesso intrico burocratico proprio per legalizzare l'indebito vantaggio acquisito e per non doverlo più cedere... almeno fino a quando a qualcun altro non sia concessa una via preferenziale che riavvia il procedimento. Com'era possibile che un uomo che conosceva perfettamente questo sistema, questo "ambiente", per averci vissuto e prosperato a lungo, decidesse di sterilizzarlo?
Com'era possibile crederlo? Questo mi chiedo. E non trovo risposta se non nel fatto che il desiderio di emulazione superi la capacità di ragionare: poiché Silvio aveva raggiunto l'apice del modello imprenditoriale italiano - leggi: la più perfetta realizzazione del connubio impresa-politica - ergo Silvio avrebbe sparso il suo potere e il suo sapere su tutti gli altri... benché invece proprio sul non dare alcuna possibilità a nessuno si basasse il connubio.

lunedì 7 ottobre 2013

Budget americano, democrazia e Magna Charta

In Italia nessun editorialista, che io sappia, si è soffermato sul cosiddetto fiscal standoff americano per paragonarlo alla situazione italiana. In sostanza il sistema americano dice che il governo non può spendere più di quanto incassa, né incassare di più, senza ottenere il permesso espresso da parte del congresso. Non c'è il permesso del congresso? Allora il macchinario si ferma, stop stipendi, stop ai fornitori, stop a tutti. Nessuno vede più un soldo dai contribuenti.
Muble, muble, che cosa mi dice mai questo?, Cos'è 'sto strano ordinamento, balzano e curioso.... possibile che si siano inventati una cosa siffattamente astrusa e complicata?
Ma to', ci sono! E' l'essenza stessa, l'anima vera e propria della democrazia. Questa è, signore e signori, e nessun'altra... e solo i paesi anglosassoni ce l'hanno e ce l'hanno da quando un certo re Senza Terra ("il re fasullo d'Inghilterra") fu costretto a firmare un foglio dal titolo pomposo di "Magna Charta Libertatum". La qual carta diceva, in buona sostanza, che il re facesse pur quel che voleva, ma se aveva intenzione di chiedere nuove tasse ai suoi nobili vassalli, doveva chiedere loro il permesso (all'assemblea che li rappresentava) ed ottenerlo a maggioranza! E basta.
Così ancora oggi, se un governo federale indende tassare i suoi cittadini deve chiedere loro il permesso, deve chiedere il permesso al congresso che li rappresenta. E se il congresso non dà il permesso si chiude baracca e burattini.
Orbene, paragoniamo questa situazione a quella italiana, o a quella della nostra cara Unione Europea, se vogliamo. Esiste la possibilità nel nostro paese o nella nostra Unione che un organo rappresentativo del popolo presuntamente sovrano sottragga all'autorità governativa il diritto di riscuotere tasse e di usarle per spendere più o meno quattrini? Che io sappia non esiste; la finanziaria annuale non prevede un voto su tutto il bilancio dello stato, come nel caso del budget americano e del fiscal cliff. Nell'Europa continentale il diritto acquisito da parte dello Stato e dei suoi attori prevale nettamente sulla possibilità di veto del parlamento.
In realtà, in riferimento al primo e più importante punto della Magna Charta, noi europei "del continente" viviamo ancora in uno stato autoritario, nel quale i governi decidono unilateralmente che si va avanti così... nel quale ai cittadini è concessa parola sui dettagli secondari, ed anche lì con minacce e prospettate catastrofi imminenti.
Altroché morta. La libertà non è ancora nata. Viva la libertà.

venerdì 4 ottobre 2013

Segnali di marginalità

Sono attirato dal tema della "decadenza". (Che ovviamente nulla ha a che fare con il "decadentismo")
Mi riferisco alla decadenza nazionale, alla sebbene-già-estesa-pur-sempre-accentuandosi, marginalità italiana. Raccoglierò d'ora innanzi su questo blog tutti i sintomi significativi di marginalità e decadenza che mi capitasse di riscontrare o nella mia vita e attività quotidiana in una città di provincia (quale è Padova), ovvero durante la mia attività d'autore o da ciò che leggo sui giornali.
Per esempio è un segno di marginalità, sebbene non troppo significativo, il fatto che i giornali on-line italiani riportino le prime pagine dei giornali stranieri ogniqualvolta in Italia accada un evento di portata travalicante i patri confini. Quasi a dire: "che roba! l'Italia sta sulla home page del New York Times!". Una goduria per giornalisti che frustra e umilia l'italiano qualunque. O peggio ancora: "vedete, se c'è un disastro del genere gli stranieri parlano dell'Italia", che ha un retrogusto querulo e impotente...

giovedì 3 ottobre 2013

Vivo a Padova

Vivo e lavoro a Padova, una città di medie dimensioni nell'orizzonte italiano. Una città di provincia.
Della città di provincia, Padova ha molti difetti e molti pregi. Fra i pregi c'è la possibilità del genio isolato, il bisogno di riscatto di quanti riconoscono i limiti dell'orizzonte in cui sono nati e cresciuti. E l'ambizione, il desiderio di crescere, progredire migliorarsi.
Si parla ovviamente di casi isolati che ricavano la propria forza esattamente dall'isolamento; che comprendono di dover attingere a fondo da se stessi se vogliono uscire dalla melma che li circonda.
Nelle città non di provincia, dove ambizione e slancio sono la norma del comune sentire, accade a molti che l'emersione sia troppo a portata di mano, troppo facile e ordinata per richiedere lo sforzo anarchico e creativo necessario al giovane di provincia.

Numerosi sono i difetti della provincia, ed elencarli è molto noioso.
Uno grande è lo sguardo costantemente rivolto al passato, ai risultati raggiunti, al consolidato, al sottoscritto e convenuto. Nelle zone di provincia, laterali, ordinarie, le situazioni consolidate hanno una forza indescrivibile, immane. Quel che conta parlando con qualcuno è la storia dell'interlocutore, la sua ascendenza, il suo trascorso, non la sua prospettiva, il suo slancio.
Nelle città di provincia solo gli amanti si guardano negli occhi. Perché gli occhi dicono pur sempre ciò che vorremmo essere. E in provincia ciò che vorremmo essere non interessa a nessuno.

Talenti dall'estero e strage dei migranti

Leggo il corriere on-line in data odierna.
Sulla colonna a destra "Internet days" quindi la foto di due orologi di nuova generazione ("smartwatch"). Sotto, il titolo stucchevole: "Innovazioni Made in Italy delle quali andare fieri" e più sotto ancora: "Donadon: 'dobbiamo attirare talenti dall'estero'", mentre in alto campeggia la strage dei migranti al largo di Lampedusa.
Una cosa è certa: quelli che dovremmo attirare dall'estero non vedranno di buon occhio la fine di quelli che abbiamo già attirato...

martedì 6 agosto 2013

Ancora Berlusconi, sempre Berlusconi...

La destra si indigna perché tutti dovrebbero riconoscere che Berlusconi è stato sfavorito, nell'essere incriminato, al momento del processo e al momento del giudizio.
La sinistra si indigna perché tutti dovrebbero riconoscere che Berlusconi è stato favorito, perché è ricco, perché possiede TV e giornali, perché s'è fatto le leggi.
Il dissidio si potrebbe ragionevolmente iscrivere nel più generale dissidio fra i diritti del singolo e i diritti della collettività.
La magistratura è chiamata a tutelare gli interessi della collettività rispettando i diritti del singolo.
I magistrati sono esseri umani e pertanto soggetti a passioni, idee, pregiudizi, e possono commettere errori.
I singoli individui d'altronde possono differire enormemente gli uni dagli altri: essere ricchi o poveri, stupidi o intelligenti, potenti nella comunità oppure insignificanti.
La legge, con il suo profilo razionale, è non umana, cioè sovra-umana, astratta oltreché stratificata, libera dalle passioni. Ed è la legge che dovrebbe portare l'equilibrio, fungere da discrimine nel coacervo di errori e passioni umane. Per questo esistono diversi gradi di giudizio: per permettere alla legge di affermarsi malgrado ogni parzialità, a prescindere dai singoli individui giudicanti.
Alla luce di ciò non sussiste il rifiuto di credito alla magistratura sulla base della sua parzialità, dal momento che la legge esiste proprio a causa di detta parzialità, la quale è un a priori di ogni sistema giuridico antico o contemporaneo.
Ma non sussiste di converso nemmeno l'opposta obiezione dal momento che se chi è ricco e potente non cercasse di usare i propri mezzi per rimanere impunito malgrado la legge o grazie a una propria legge, la legge ugualmente non esisterebbe. La ricerca di impunità del singolo è sempre tale in riferimento a una legge che determini i confini della liceità. Se la legge vale identica per tutti, deve valere tanto per chi non ha alcun potere di contestarla quanto per chi ha il potere di contestarla. Non può essa valere "tanto più" nei confronti di quest'ultimo, altrimenti cesserebbe di valere identica per tutti... e ricadremmo nel caso di parzialità che proprio l'esistenza della legge dovrebbe escludere.

Al proposito, sento dire e leggo - da parte di sedicenti paladini della legalità: "La condanna di B. è una prova di democrazia"... che è una bestialità immane. Come può una condanna (o un'assoluzione) divenire prova di democrazia? Come può essere tale in un qualunque regime o sistema che non sia del terrore alla Robespierre?  

venerdì 26 luglio 2013

Fassina, il PD e le tasse

E' un po' penosa la polemica sorta nel PD dopoché il viceministro Fassina ha ipotizzato l'esistenza di "un'evasione della sopravvivenza". Penosa perché la dichiarazione di Fassina è più ingenua di quanto non avrebbe dovuto essere, dato il ruolo rivestito dallo stesso, e la reazione del PD appare, come al solito, parolaia... come se la realtà dipendesse da quel che viene detto e non, come accade, da ciò che viene fatto... come se quel che non è detto non esistesse (scriverò un post su questo: "sia quel che sia, basta che io non ne sappia nulla..." mi viene in mente un vecchio film con Gino Cervi.... basta che nessuno lo dica e il problema è già grandemente inferiore)
In ogni caso l'ingenuità di Fassina dipende da questo: la tolleranza dell'evasione fiscale in Italia è stata per anni uno strumento improprio, non formalizzato, per abbassare la pressione fiscale sulle imprese e sui consumatori. Per anni la tolleranza dell'evasione ha ottenuto i risultati che sarebbero spettati, maggiori ancora, a un piano di governo serio e programmatico. Poiché quest'ultimo non si riusciva a fare (o non si voleva fare) a causa dell'instabilità politica o degli interessi di parte, la tolleranza dell'evasione è stata l'unica soluzione, l'unico sistema per fare, poco e male, quel che andava fatto.
Tremonti aveva quasi teorizzato questa funzione "incentivante" dell'evasione (ricordo un excursus in occasione di un raduno generale della Guardia di Finanza trasmesso in TV in un anno di mia assoluta disoccupazione).
Alcuni sostengono che l'economia italiana fosse, e sia ancora, "drogata dall'evasione fiscale". Ma dire che l'economia tollerante con l'evasore è drogata significa affermare, implicitamente, che se i soldi evasi fossero stati pagati al fisco le cose andrebbero molto meglio di come vanno... il che è tutto da verificare, dal momento che da quando l'Italia ha cominciato a combattere seriamente l'evasione senza abbassare le tasse le cose han cominciato ad andare sempre peggio.
"Saremmo cresciuti di meno ma meglio, pagando le tasse..." questo significa "drogata dall'evasione fiscale". Di un discorso economico si fa un discorso morale, o viceversa... inavvertitamente.

L'evasione in Italia è stata a lungo tollerata e ha svolto la funzione di incentivo fiscale. E non tanto per sopravvivere ma piuttosto per costruirsi ville che a loro volta hanno attivato circuiti economici virtuosi. Vista dai nostri politici/amministratori l'evasione è stata l'ennesimo strumento utile a evitare una riforma strutturale della spesa pubblica, perché ha permesso all'economia di crescere, sia pure poco, male e illegalmente, ma senza sottrarre prerogative legali allo stato, senza evidenziarne l'insostenibilità strutturale, senza allargare l'area dell'iniziativa privata.
L'evasione della sopravvivenza non produce crescita economica ma solo miseria morale. L'evasione che non serve a costruire ville ma a comprarsi la bistecca al supermercato illividisce, alimenta rabbia, frustrazione. Quindi che Fassina ci dica quel che dice è un fatto naif, da asilo nido. E che il PD si indigni per l'evasione è ignoranza o ipocrisia. Abbassino le tasse, taglino la spesa pubblica e poi, solo poi, si indignino con gli evasori...

martedì 16 luglio 2013

Paradigma immutato

Sono pronto a sostenere che dal XVI secolo a oggi le concezioni di autorità, responsabilità, liceità e rettitudine morale, nell’ambito dei paesi di matrice culturale cattolica, non sono mutate, malgrado l’apparente secolarizzazione della società. E di seguito fornisco una prima prova, a partire dal testo di uno storico tedesco: Heinz Schilling, Aufbruch und Krise. Deutchland 1517-1648 [trad. it. Ascesa e declino. La Germania fra il 1517 e il 1648, Bologna 1997, trad. M. Ricciardi, p.78-79, corsivi miei]:

“In che misura dall’etica economica e dalla morale sociale della vecchia chiesa [la chiesa cattolica] potessero sorgere pesi e ostacoli psicologici capaci di sbarrare la strada a un pieno dispiegamento del modo di pensare del protocapitalismo, è dimostrato dalla vita di Johannes Rinck (1458-1516), borgomastro di Colonia  e mercante dell’Hansa, il quale deve essere annoverato tra i rappresentanti del protocapitalismo renano e tedesco-occidentale […]. All’età di 53 anni, nel 1511, si ritirò da una vita di mercante piena di successo, poiché, come il giovane Lutero, egli dubitava di essere sulla retta via. Gli erano venuti improvvisamente degli scrupoli sul fatto che “i commerci dei mercanti fossero dannosi alle anime e alle coscienze e non fosse possibile condurli senza peccato”. Nel suo testamento Rinck lasciò in eredità una considerevole donazione ai poveri di Colonia […] e in riferimento alla sua peccaminosa vita da mercante consigliò ai suoi figli di non aspirare per prima cosa alla professione da mercante, ma di intraprendere la "più sicura, la più placida e la più pacifica" delle professioni mondane, di diventare cioè professori universitari.”

Al pari di molti degli odierni dirigenti della pubblica amministrazione italiana, siano essi alti funzionari, magistrati o professori universitari, Rinck arriva al ripudio intellettuale, per ragioni morali e ideologiche, della libera attività commerciale. Il dato sorprendente è che l'atteggiamento di Rinck appare letteralmente "sprezzante" nei confronti della sua attività commerciale, e in ciò esso è ancora più coincidente con il sentimento dei suddetti funzionari. L'indicazione ai figli poi è identica a quella che un'intera generazione della borghesia italiana ha additato ai propri rampolli negli anni sessanta del XX sec. Mentre nel contesto protocapitalistico del XVI sec. il movente del ripudio fu il credo religioso di matrice cattolica, negli anni sessanta del XX sec. il movente era l'ineguaglianza economica e la lotta di classe alle quali si voleva porre rimedio deprecando e punendo la libera attività imprenditoriale e di converso elevando le classi umili a mezzo di sapere e dottrina.
Quello che mi affascina è che l'approccio è identico nel XVI come nel XX sec.:
1. la libera iniziativa imprenditoriale è disprezzata per ragioni etico-ideologiche (per la salvezza dell'anima o  per una società più giusta)
2. la professione di professore universitario è esaltata nel XVI e nel XX sec., in quanto neutrale, "placida" e rispettabile. Perché apparentemente slegata da pulsioni materiali e inoffensiva nei confronti di Dio o dei meno abbienti
Il paradigma di fondo è lo stesso nel XVI e nel XX sec., malgrado la secolarizzazione intercorsa: l'agire in vista della propria salvezza spirituale, il tentativo di preservare una sorta di purezza attraverso il rifiuto e il disprezzo del mondo materiale.
Occorrerebbe pensare alla figura, al tipo e carattere umano che emerge da questo. Perché la purezza preservata genera autorevolezza, rispettabilità. E queste a loro volta generano organigrammi titolati, cariche, attese di genuflessioni, bacio d'anelli, ossequio verso il potere.... tutta una serie di vizi dell'europa cattolica e mediterranea in particolare, ma non solo.   

giovedì 23 maggio 2013

Una politica senza intenzioni

Un dato desolante dei nostri politici è l'assoluta incompetenza. Si spaccia per democrazia il fatto che gente incapace sieda in parlamento. Se in parlamento ci fossero solo ricchi industriali e grandi accademici, sarebbe un parlamento non democratico, dei "poteri forti". Questa idea è il peggior lascito dei grandi partiti "popolari" della prima repubblica.
Eppure l'incompetenza dei nostri "leader" non ha a che fare, o non solo, con la mancanza di nozioni tecniche sul da farsi. Alcuni, su questo, potrebbero anche essere preparati. L'incompetenza è più specificamente politica. Prendiamo uno come Mario Monti. oggi sarebbe ancora presidente del consiglio se la sua incompetenza politica non l'avesse tradito...
E questa incompetenza sembra in effetti una carenza d'intento. Una mancanza di intenzioni. Anziché concentrarsi sulle sue intenzioni, Mario Monti ha ragionato, ha dedotto, articolato; ha ragionato come se la politica fosse anche per gli incompetenti... i quali, in mancanza di esperienza maggiore, si basano sul calcolo e sulle regole.
Come avremmo incarnato un'intenzione se fossimo stati Mario Monti? Avremmo puntato sulla parità, che poi in effetti c'è stata, e contato sulle grandi intese. Chi l'ha fatto è Berlusconi. E gli è andata bene...perché è un guitto, un attore, e come tale sa utilizzare l'"intenzione"

Destra, sinistra e codici di condotta

La polarizzazione destra/sinistra nell'occidente contemporaneo è uno strano anello ricorsivo. L'economia non vi gioca quasi più alcu...