sabato 5 dicembre 2015

Voi non capite niente, è tutto scritto...

Leggo sul Corriere on-line di oggi:
"Islam, la studentessa musulmana a Milano: Voi non capite niente, è tutto scritto nel Corano", 
qui, e rimango sconcertato per una serie di ragioni:

Primo pensierino. Per quale ragione due giornalisti vanno in una scuola a spiegare politica internazionale? Per quale ragione portano il loro bagaglio di contraddittori, di polemiche troppo attuali e di incerte contrapposizioni - bagaglio essenziale al giornalista - in una scuola? Perché nella scuola non va uno storico, il quale sarà carico di fatti documentati e contestabili solo mediante altri fatti?
E questo, sia detto per inciso, mi pare il limite principale e strutturale della vasta quanto disalfabetizzante operazione di massa nota come "quotidiano in classe"... l'esaltazione della quota opinabile di qualunque narrazione storica. Un'esaltazione dannosa e temibile tanto quanto l'opposta idolatria del documento inconfutabile.

Secondo pensiero. Cosa faccio studiare ai miei figli? Come li consiglio? I miei limiti sono tali che mi si affaccia l'idea - così frequente nel cinema e nella narrativa americana - della contestazione minima, ingenuamente profonda del tipo:
Papà [prematuramente defunto, ndr] diceva sempre di non fidarsi di chi si fida di un solo libro
oppure 
Non farti mai dire che non capisci niente, diffida da chi usa questa formula
che in ultima analisi dicono "Mai dire mai", l'essenza del libero pensiero...
Obiezioni minime, ineccedenti, pacifiche, che non richiedono la conoscenza dell'opera omnia di Voltaire o di Schopenhauer, ma che lasciano un varco, una via d'uscita, un nascondiglio per la ragione. L'alternativa è fornire il tempo e la voglia ai ragazzi di studiare filosofia, geometria, storia e... qui veniamo al pensiero che occupa le righe seguenti.

Terzo pensiero. Tempo fa ho partecipato come un pollo, ahimé, a un lungo flame sul sito "noiseFromAmerika" (la k è tutto un programma) scrivendo la mia in commento a un post di tale Michele Boldrin (uno degli innumerevoli economisti europei prestati alle facoltà anglosassoni; qui si aprirebbe una lunga parentesi - in stile Tristam Shandy, se io fossi autore dotato almeno la metà di Sterne - sulla boria irrepressa di siffatti personaggi a capofila dei quali porrei il volitivo Varoufakis il cui credito in Europa, in primis in Italia, quasi raggiunse vette accessibili solo agli allenatori di serie A, per poi scemare tanto rapidamente quanto quello di costoro. E' veramente penoso e provinciale da parte nostra lasciarci incantare - senza muovere obiezione - dalla sigla Phd seguita da qualche esotica località palesemente australiana, britannica o nordamericana... ma direi che è parte del dissesto che contestavo a Boldrin).
Insomma, per farla breve Boldrin proponeva una soluzione spedita e sicura dei problemi italiani esortandoli come segue:
Aboliamo il classico!   
Il nocciolo della questione, sviluppata dal Boldrin con rodata retorica, era che il Liceo Classico insegna la retorica - con tutto l'armamentario dell'arzigogolato e immisurabile filosofare. E la retorica serve a imbonire la gente, come fanno da decenni i politici italiani. E che se vogliamo liberarci degli imbonitori, per darci ai puri fatti (molto simili ai 'fatti' di un certo signor Gradgrind, ndr.), dobbiamo abolire il liceo classico.
Mi preme notare innanzitutto che tale opinione era espressa nell'autunno del 2014 ed è invecchiata così male, ma così male, alla luce dei recenti avvenimenti e dell'articolo che citavo all'inizio di questo post, che nemmeno esponendoci a una dose fatale di becquerel - per rimanere ai fatti cari al Boldrin - invecchieremmo così male...
Sì perché il commento della nostra minuta studentessa islamica, di cui sopra, e l'insipienza delle risposte di giornalisti (primi irresponsabili), insegnanti e compagni di classe (incolpevoli... in fondo non fanno il classico) delinea esattamente l'orizzonte verso il quale ci dirigiamo dopo aver sputato sull'inutile e fumosa retorica, e irriso l'opinabile pensiero filosofico insegnati nei vecchi licei classici. Si tratta, in due parole, di una "morale civile", ovverosia del banale buonsenso non scevro di sano scetticismo nei confronti degli invasati, che trasuda da ogni versione latina e greca. Si tratta anche - ma è questione di altro post - di rettitudine funzionale alla civile convivenza, la stessa rettitudine che è sempre più rara nelle classi dirigenti o intermedie da quando, negli ultimi trent'anni, gli studi classici si sono insipientemente deteriorati. Si tratta, lo ripeto, di una morale non religiosa, che non affida a un libro o a un Dio il destino umano, bensì all'interpretazione umana di libri, divinità e del comportamento dei vicini si casa...  

[A proposito, a Boldrin scrivevo questo, con lo pseudonimo di Carlo Viralata.]

Quarto pensiero. Fossi stato la ragazzina araba avrei chiesto, all'insegnate o giornalista che citavano Voltaire, di spiegare qualcosa di Voltaire... di dire cosa diceva esattamente Voltaire. Non sarebbe uscito nulla...

  

venerdì 27 novembre 2015

Cambiamento climatico e crisi del debito

Trovo interessante la similitudine fra lo schema psicologico connesso al cambiamento climatico e l'altro sulla crisi dei debiti sovrani. In entrambi i casi vi sono in gioco il debito e il credito, risorse e consumo consapevole, colpa, insaziabilità.
Il tema di fondo, identico nei due contesti è il seguente: chiediamo troppo. Chiediamo troppo alla natura (le risorse) o chiediamo troppo allo Stato (denaro a credito) e quindi ne paghiamo le conseguenze.

A ben vedere questa della colpa originaria è un'ottica linearmente cristiana. Ma è un altro discorso...

Mi interessa rilevare che se i cambiamenti climatici non dipendono dalle attività umane (il che escluderebbe la colpa) e se sono avvenuti più volte in passato, anche quando gli esseri umani avevano già costruito società complesse, e se tali società complesse sono state distrutte dai cambiamenti avvenuti, allora ne consegue che l'attuale cambiamento può distruggere anche la nostra civiltà e pertanto dovremmo fare qualcosa per contrastare attivamente i cambiamenti climatici naturali.

Il che è - sotto il profilo ideologico - esattamente il contrario di quanto crede la maggior parte dell'opinione pubblica e cioè che la terra ci chieda di limitare la nostra azione, di trattenere la mano modificatrice per consentire al pianeta di riprendere un proprio ciclo climatico naturale.
Se l'uomo debba modificare la natura, o possa farlo, o se non debba rimettersi a essa essendone parte. Indubbiamente il senso di colpa derivante dalla convinzione - probabilmente fondata - di essere l'artefice dei cambiamenti climatici può indurre l'essere umano a ritenere che un atteggiamento "passivo" sia la soluzione corretta al problema climatico: meno consumi, meno emissioni. Ma paradossalmente proprio la passività di fronte al cambiamento equivarrebbe a una passeggiata tranquilla e ingenua verso la catastrofe. Il cambiamento climatico - sia esso naturale o artificiale - deve essere affrontato attivamente, il che significa servendosi di tecnologie sempre più costose e sofisticate; viceversa ogni visione filosofico/religiosa o colpevolizzante dovrebbe essere evitata.

Debito e clima mostrano come nell'occidente cristiano, e ormai nel mondo intero, continui a non esservi profitto senza colpa o senso di colpa. La radice forse è ancora più antica, ed è nel trascurare i bisogni spirituali, un sapere superiore (sofìa) per dedicarsi unicamente ai bisogni e ai saperi terreni (frònesis). Perché esiste questo meccanismo instrinseco? Cos'è? E' funzionale alla conservazione della specie, che non passa semplicemente per la salvezza di un individuo? Forse è funzionale alla conservazione del gruppo... un istinto di conservazione delle relazioni.

lunedì 5 ottobre 2015

Democrazia e demografia

Oggi in Italia gli ultracinquantacinquenni sono il 33% della popolazione e i minorenni sono il 18%. Molti individui under 55 non hanno diritto di voto, perché sono immigrati privi di cittadinanza italiana. Ne risulta che gli ultracinquantacinquenni sono più di metà dell'elettorato. Molti di loro non sono interessati a intraprendere o a credere in riforme di medio-lungo termine. 
In Italia nessun partito che metta in programma un taglio delle pensioni a vantaggio del sussidio per gli asili nido ha speranza di vincere le elezioni. Fino a che la maggioranza dell'elettorato sarà formata dalla parte più vecchia della popolazione, non c'è speranza di invertire la tendenza demografica.
Il voto di chi ha figli minorenni dovrebbe valere di più, come pure quello dei giovani. A prescindere da qualunque visione ideologica, sarebbe indispensabile dare subito il voto a tutti gli immigrati che lavorano in italia da almeno due anni. Si tratta di individui giovani che voteranno programmi di riforma e di ridistribuzione della ricchezza fra generazioni. 

martedì 22 settembre 2015

Giudizio Finale

Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna. [Matteo 25, 31-46]

Governo, politica e scontentezza

Se governare è l'arte di scontentare qualcuno, chi fa politica è uno che chiede di poter far scontenti gli altri.... allora perché tutti i politici promettono felicità? Dovrebbero sempre promettere lacrime e sangue... per non mentire fin dal principio.
Dovrebbero dire: "votate per me, vi scontenterò più e meglio di quell'altro"; solo così sarebbero credibili...

venerdì 11 settembre 2015

Di genio e aberrazione

Io penso (come altri?) che il genio sia figlio del caso e che il genio trasformi il caso in aberrazione per l'opinione pubblica o morale comunemente accettata (ormai per tale si intende la morale del giorno o della settimana. Che duri poco non v'è dubbio, ma che vi sia è altrettanto certo)
Penso che quest'ultima morale tenda costantemente alla repressione del caso-aberrazione all'origine del genio. Caso, per l'appunto, divenuto aberrante a causa del genio (della sua visione del caso). Detto così è un casino....

Facciamo un piccolo esempio. Nel 1984 O.P. è lo scrittore americano del momento. O.P. aveva un padre assente-giramondo e una madre alcolista. I suoi romanzi hanno conquistato mezzo mondo e soprattutto i lettori americani. In essi l'autore descrive l'infanzia difficile con la responsabilità di una sorella più piccola che egli dovette crescere da solo.Il futuro presidente americano T.C. nel 1984 ha 21 anni ed è uno studente di legge. Il libro di O.P. gli capita sotto gli occhi per caso ma lo legge con grande interesse. Trent'anni dopo, durante il primo anno della sua presidenza ingaggia una battaglia politica senza quartiere per aiutare le madri alcolizzate e punire i padri assenti-giramondo.

In altre parole, il genio (O.P. e il suo romanzo) si produce in circostanze che appaiono (a causa del romanzo e quindi del genio che l'ha prodotto) aberranti (l'abbandono da parte del padre, l'alcolismo). La morale comune (il presidente) considera malattie e abomini le condizioni che hanno creato il genio; le biasima e condanna senza riflettere (la morale non riflette) su quanto esse abbiano reso possibile il genio stesso che le ha descritte. Pertanto la morale comune, istigata dal genio, cerca di eliminare le aberranze che hanno prodotto il genio medesimo. Con il risultato che, sul lungo periodo, diminuiscono i casi-aberranza e i relativi geni e la civiltà da anti-estetica e censurante diviene sempre più, semplicemente, brutta.

Per converso la mancanza di una sovrastruttura repressiva massifica l'aberrazione, rendendola altrettanto antiestetica; e anestetica del genio...

Sui libri

Ai paladini dei libri io chiederei: perché i libri? Non siamo forse ben oltre la soglia della composta rivoluzione digitale che prevede la scomparsa del libro? C'è chi dice di no e chi dice di sì e chi dice che non ha nessuna importanza. E fra questi ultimi si pone il sottoscritto; quest'era digitale, rivoluzione dalle vittime di carta, è una rivoluzione della conservazione e della memoria. La fine della ridondanza e dell'imprecisione della copia e della mente umana. Fuor di dubbio che in essa il libro come entità non materiale troverà l'apice del suo potere. Ogni libro diventerà Un libro. Un'unica copia universalmente fruibile e intoccabile. Il libro non sarà più posseduto, ma eminentemente letto e il suo corpo sarà tanto particolare da aver vita di per se stesso, tanto che come Pigmalione noi lo imploreremo di parlare. Ed egli lo farà nel modo più pignolo, signore assoluto di sé stesso, mai in errore, sarà forse un mediocre conversatore; ma provate a coglierlo in fallo! Guardiano il libro lo è sempre stato, fin dalla sua giovinezza; anzi già prima di nascere. Ma oggi! Com'è essenziale il suo ruolo! Com'è prodigioso il fatto che sia sufficiente che qualcuno legga una volta sola un libro perché esso segni in qualche modo il suo tempo. E arriviamo sempre a notare che tutto era previsto, che il legame, l'intreccio più nascosto era chiaro come la luce del mezzogiorno. L'azione perfetta è il "quadrare"; leggi un libro oggi, vedrai che esso "quadra" perfettamente con tutti gli altri. Ma non leggerlo e ti resterà il dubbio, benché tu sappia che una volta letto esso quadrerà, ciò nonostante dovrai leggerlo per esserne certo!

Poi c'è l"imbroglio del gusto. Si sarà notato che mi piace andare subito all'incrocio delle vie... ma non intendo parlare di me. Certo è una bel taglio da opinionista questo, da pensiero concreto, da fustigatore del costume del denaro. Com'è impossibile sfuggire a questo ruolo per il lettore di libri! Guardiani di critica, di concretezza, di fustigazione sono loro e i loro lettori. Ma dal fondo di quale tomba cartacea potrà mai gridare la voce che non ripeta il suggerimento del guardiano? Sì, perché sono guardiani strani, che ti stanno alle spalle, che ti spingono avanti anziché indietro, a patto che tu ne abbia abbastanza intorno a te; che ti dicono cosa dire anziché impedirti di aprire bocca. Ma ecco l'imbroglio! La questione dei guardiani è così semplice, così lineare ma passa prima il gusto.

Questa ignobile sceneggiata del gusto. Non è forse il gusto una piramide che come ogni altura è più suggestivo scalare dalla base? Ogni pietra, ogni passo, ogni scalino ti affina i muscoli; la memoria poco a poco ti insegna il rifiuto del passo precedente, grezzo e inadeguato maestro rispetto al suo superiore. Non importa se qualcuno, se molti o moltissimi non troveranno interessante scalare di prima persona; Essi vivono nella regione i cui confini sono le linee che uniscono queste piramidi, è abbastanza. Di più: non può essere altrimenti, perché le piramidi sono pur sempre anche le mura delle città. Proprio lassù, proprio nel gusto hanno trovato il modo di far parlare di sé. Ma cosa nasconde la pretesa del gusto, se non un non-voler-guardare-avanti, pur dovendo permettere al tempo di avanzare? Oggi sono due le funzioni del gusto. Della prima in molti hanno già parlato. Essa è l'economia che deve sorreggere il gusto per esserne sorretta. E ora non mi si obietti che "c'è libertà". Non ha importanza questa libertà. Anzi, noi non la vogliamo neppure questa libertà. Essa concede di assottigliare il gusto, di alzare la piramide alla base o al mezzo. Ma la cima rimane sempre inarrivabile, poiché è dalla cima che si è iniziato a costruire. Questo è nella mente della nostra civiltà dei libri, da sempre. La perpetua desertificazione, altrimenti pensata come genealogia negativa o tensione al nulla inizia nell'ammirazione della cima e nella sua irraggiungibilità. L'altra funzione, più propria del termine, consiste nell'impedire che una qualsiasi opera contraria ad esso prenda piede. In breve, il gusto opera definendo la moda. Così ne ha un duplice vantaggio; da una parte sostiene la moda e agisce quindi in favore della prima funzione. Inoltre, abilmente, cala ogni oggetto nuovo, ogni idea, in un tempo effimero che Platone direbbe immagine dell'immagine mobile dell'eterno, quasi una quinta dimensione ultra temporem. Con l'eterno il sistema del gusto ha in comune la ciclicità, in qualsiasi forma. Non si vede abbastanza come esso continui a divorare sé stesso?

Il gusto, e ancor più la moda, cessano di essere tali allorché di essi si parli e si sappia. Allora entrano nella storia del gusto e nella storia della moda. Questo è un punto essenziale ed inequivocabile. Incatenata sul fondo di un oceano non teologico ma esistenziale, la moda è un altro tabù dei nostri giorni. E' anche l"unico sentire del momento. Malgrado la sua storia sia ormai ampiamente studiata essa esiste solo quando della moda si parli e non mentre la si viva, in quanto dell'istante non può esistere storia ma solo accadere. Questo attributo immancabile di discorsività, affinché la parola moda non cessi di avere significato, consente al gusto di operare indisturbato. Permette la sussistenza del ciclo che non deve avere memoria per non diventare tedioso e di conseguenza essere spezzato.  

giovedì 10 settembre 2015

L'ultimo tabù

Quando preferirei lavare i pavimenti, piuttosto che fare il lavoro che faccio, mi metto a scrivere sul mio diario di filosofo disorganizzato.
Ci sono cose tanto vicine che non riusciamo a vederle. Un po' come gli occhiali. Queste cose io le chiamo tabù. Prendiamo ad esempio la triade capitolina del mondo contemporaneo - o di qualsivoglia era? - Sesso, denaro e potere. Sesso e potere non sono così vicine, non lo sono più ma lo erano. Erano dei tabù. Il sesso era un tabù nelle società bigotte e riformate. Oggi tutti ne parlano liberamente. Tutti hanno una soluzione su come è meglio farlo, quando, con chi, perché sì e perché no e i mille modi e motivi, in un arabesco senza fine. Il lato deletereo del sesso detabutizzato è la depersonificazione dell'uomo, il suo divenire mero oggetto fisico deormonizzato e razionalizzabile. Una cosa da serial killer e necrofili. Io lo chiamo 'sesso acrobatico', perché è più o meno una cosa da circo.
Il potere è tabù in una società dittatoriale. Oggi tutti parlano del potere, di quanto è lercio chi lo detiene, nonché invidiato, nonché, forse, considerato lercio perché in realtà invidiato. Le lussureggianti teorie del complotto di ogni genere e natura sono lo feccia del potere detabutizzato, i loro creatori e soprattutto diffusori mi assomigliano incredibi
lmente a scarafaggi stercorari.

Il denaro no. Il denaro è l'ultimo tabù. Nessuno, badate, proprio nessuno parla del denaro. Nessuno vi dice come dovete spenderlo o meno. Il dileggio o disprezzo per determinati acquisti non fa riferimento al denaro, fa riferimento alla visione del mondo che tali acquisti presuppongono, e pertanto al potere, o all'estetica (pensiamo alle società in cui l'estetica era un tabù... ma è un altro discorso). Ma nessuno vi dice come dovete spendere il vostro denaro. Nessuno vi fa sentire in colpa perché lo spendete in un modo anziché in una altro. Nessuno osa parlarne. E' privato, è intimo, è un tabù. Solo il mendicante per strada osa farci sentire in colpa per non aver depositato la moneta richiesta. Ma si tratta di un rejetto, di uno scarto della società, di un emarginato, appunto, che non rispetta i tabù comuni.

Ma mi direte, la pubblicità onnipresente mi dice continuamente come devo spendere il denaro. Errore clamoroso! La pubblicità se ne infischia del vostro denaro. Non sa quanto denaro ha ciascuno di voi, sa quante persone ci sono che dispongono di una determinata quantità di denaro. E' una cosa diversa. La pubblicità si riferisce al denaro di tutti, non al vostro, e vi esorta a credere che il prodotto pubblicizzato vale il denaro che costa; che cosa rappresenti quel denaro per voi non la interessa minimamente, né dovrebbe interessare voi. E' interesse dei responsabili marketing che voi non vediate il legame fra l'oggetto e il denaro che sta nelle vostre tasche. Dovete vedere solo l'oggetto, l'oggetto assoluto direbbe Hegel, e desiderarlo. Il denaro deve rimanere un trascurabile passaggio. Tale e quale era il sesso nel mondo cattolico: un trascurabile passaggio per procreare.
Il tabù denaro è sempre più forte, sempre più onnipresente. Un'altra prova della sua esistenza e dimensione consiste nella progressiva scomparsa del denaro. Esso viene sostituito dalle carte di credito, che ne annullano totalmente la presenza fisica e lo riducono a un numero su un foglio di carta o su un monitor. Il credito al consumo annulla persino quel numero! Ideale della società odierna è sottrarre all'individuo medio la percezione del denaro, della sua esistenza. Cancellarne il concetto stesso.


Del resto come accadeva con il sesso tabù, più la società tenta di cancellarlo dalla mente degli uomini, più gli uomini ci pensano. Per questo ho incorniciato nel mio studio il verdone con l'effigie di George Washington: a eterno monito di libertà!

mercoledì 9 settembre 2015

Perché non vi fu divergenza cinese?

"In effetti, poiché la speranza di vita alla nascita era analoga [prima del 1750] - il che rende improbabile che gli europei fossero meglio nutriti  - l'enorme disparità di densità demografica fra l'Asia orientale e l'Europa occidentale costituisce una testimonianza impressionante dell'entità della differenza di efficienza fra l'agricoltura cinese e quella europea." cit da K. Pomeranz, La grande divergenza, p. 77.

Nella foga delle sue tesi, Pomeranz evidenzia spesso e a risolutamente la sostanziale identità fra condizioni europee e asiatiche preindustriali. Sottolinea soprattutto come molte condizioni fisico-geografiche a vantaggio dell'Asia pareggiassero eventuali soluzioni organizzative e condizioni materiali europee apparentemente assenti in Asia (per esempio il bestiame abbondante o le abitazioni più solide, o le reti di canali artificiali). Infine sostiene che il carbone, disponibile in abbondanza in Gran Bretagna, fu il vero artefice della grande divergenza.
Ma, viene da chiedersi, perché nessuno dei numerosi vantaggi geografici dell'Asia produsse una grande divergenza asiatica? Perché invece un solo vantaggio geografico europeo (il carbone) consentì all'Europa occidentale di "divergere"? Pomeranz risponderebbe: "perché l'Europa ebbe anche le risorse del Nuovo Mondo...". Tuttavia, ugualmente, l'idea che una serie di vantaggi "geografici" possa compensare una serie di soluzioni tecniche/organizzative è troppo meccanicistica e velatamente deterministica.
Un diverso rapporto (in Asia vs in Europa) con la natura; un fiero - filosofico - rifiuto del determinismo a favore del libero arbitrio (in Europa)... sono elementi che non rientrano nell'analisi storica contemporanea, e tanto meno nella cosiddetta world history.

giovedì 3 settembre 2015

Su Isis, il tempio di Baal e il futuro

Isis rade al suolo il tempio di Baal a Palmira. Noi occidentali della middle class non lo ammireremo mai, se non in foto, poveri noi, derubati di un così prezioso e utile svago (svaghi ne restano pur sempre molti, sono il nostro pane). Sbigottimento, indignazione, strazio, pena e rabbia si sprecano. Si resta senza parole (una condizione sempre più comune oggigiorno).
Eppure, sebbene io non approvi la barbarie di cui Isis è intrisa, non posso esimermi dal pensare che... o meglio una parte di me, che non mi è mai riuscito di zittire, rileva che... c'è della purezza, c'è perfino dell'arte in questa faccenda della distruzione dei musei archeologici e delle rovine eccetera, eccetera. C'è una forte affermazione identitaria, così forte da spiegare, oltre la sorpresa e l'incredulità, perché tanti giovani accorrano ad arruolarsi "con" o "contro" l'Isis.
La generazione dei figli ha sempre inteso rovesciare quella dei padri. In qualche modo è la sua missione, sebbene in paesi come il mio sia una faccenda ormai dimenticata.
Anche l'artista e l'artigiano sanno bene che la creazione fluisce copiosa nei rari momenti in cui è concesso ignorare - e pertanto sovvertire e distruggere - le opere già create. Il proiettarsi nella creazione, che non sia rifacimento e copia, proviene dalla cancellazione del consolidato; nel caso più comune dalla dimenticanza del consolidato, che raramente si concreta nella distruzione dello stesso, ma che può includerla.
Siamo agli antipodi della nostra civiltà europea, italiana in particolare ma anche tedesca o russa o inglese, siamo al rifiuto dell'accumulazione e del culto degli avi. Alla pura e semplice affermazione dell'io, con tutto il corredo di sangue e muscoli dei ventenni. Il fatto che agli antipodi vi sia tanta barbarie dovrebbe suggerirci che anche qui, agli antipodi degli antipodi, la barbarie contraria abbia raggiunto livelli insostenibili, penosi e strazianti, eccetera.
Si noti al proposito come il progressivo sfacelo di Pompei e di molti musei nazionali avvenga agli antipodi di Isis ma trascini, sia pur lentamente, al medesimo risultato... in fin dei conti purificatorio.

Se lo Stato va in utile...

Tempo fa, all'inizio di questo blog, scrivevo che un giorno potrebbe essere lo Stato a versare un "obolo" ai cittadini, anziché richiederlo sotto forma di tasse. Qualcosa del genere avviene già nei paesi esportatori di petrolio; avviene anche indirettamente attraverso il pubblico impiego. I limiti di questi due sistemi sono ben visibili: nei paesi esportatori di petrolio il fatto che la disponibilità dell'obolo dipenda interamente dalla possibilità di piazzare il petrolio all'estero; nel pubblico impiego nel fatto che l'obolo pubblico finisca nelle tasche di una fetta minoritaria della popolazione, la quale ha ogni interesse a rimanere tale.
La mia idea invece è che lo stato, con l'insieme dei servizi che produce, divenga una vera e propria società mirante a piazzare i suoi servizi sul mercato. Lo Stato dovrebbe incassare quanto serve al suo mantenimento dalla vendita dei suoi servizi e altresì ricavare un utile che possa essere ridistribuito ai cittadini, a tutti, sulla base del loro reddito. Ovviamente questo stato non dovrebbe incassare tasse ma potrebbe far pagare i servizi erogati il loro vero valore.  Lo so, mi si dirà che prima era così e gli Stati contemporanei esistono proprio per fare ciò che io nego loro. Ma i tempi sono cambiati da allora, soprattutto nei paesi in cui esiste una classe media. Non si trascuri il fatto, poi, che esistono diversi modi per consentire anche a chi non possiede mezzi, di usufruire dei servizi che lo stato farebbe pagare: attraverso il debito o attraverso la stampa di denaro per coloro che ne abbisognano.
L'importante sarebbe rovesciare la partita: creare uno stato il cui governo non sia più giudicato da quanto riesce a ridurre il prelievo, ma da quanto riesce a incrementare l'obolo.

mercoledì 8 luglio 2015

La faccia da referendum di Tsipras

Defiant: Greek Prime Minister Alexis Tsipras (pictured) has urged Greeks to reject 'blackmail' when they vote on whether the country accepts the terms of a bailout agreement on Sunday

La faccia di Tsipras quando ha annunciato il referendum... perfetta per Lie to me. Esprime palesemente la disperazione: gli angoli della bocca sono abbassati, le palpebre leggermente basse, lo spazio fra le sopracciglia contrito; le rughe solo nella parte centrale della fronte.
sadness
deep sadness
Il punto è che mentre esprimeva questo sentimento, con la faccia, con le parole chiedeva un atto di orgoglio, la vittoria della democrazia per il luminoso futuro della Grecia. Mi si dirà che era consapevole dei guai verso i quali dirigeva il paese... ma è proprio questo il punto: era consapevole di qualcosa di drammatico e non ne ha parlato... Perché? Perché ha mentito al suo popolo sui veri rischi verso i quali stava conducendo i greci?
Una menzogna del genere, di solito si paga...


venerdì 26 giugno 2015

Incontro con il sindaco Bitonci

Assisto a un incontro pubblico con Massimo Bitonci, sindaco della città in cui risiedo. Devo dire che, malgrado disprezzassi l'inettitudine del suo principale avversario alle ultime elezioni, non sono fra coloro che hanno votato Bitonci. Sentendolo parlare delle sue idee e del suo lavoro per la città, l'altro giorno, un poco mi sono ricreduto, devo dire. Bitonci sembra una persona seria e combattiva, uno che si dà da fare.
Però continuerei a non votarlo...
Quello che non condivido è il suo atteggiamento nei confronti delle minoranze straniere, in particolare nei confronti degli islamici. In breve la politica del buon leghista Bitonci è questa:
1. Moschea: no!
2. altri luoghi da adibire a culto: no!
3. incontro con delegazioni di islamici moderati: no!
4. incontro con associazioni di islamici residenti da oltre 10 o 20 anni: no!

Be' una condotta del genere da parte di Bitonci sarebbe razionale qualora credessimo in una di queste due possibilità:
1. che nel giro di pochissimi anni le migliaia di residenti islamici migrassero altrove
oppure
2. che le migliaia di residenti islamici si convertissero in quattro e quattr'otto ad altre religioni o all'ateismo

Ma qual è la probabilità che una di queste opzioni si verifichi?
A mio parere nessuna.
In alternativa: quale potere possiede Bitonci per far sì che una delle due opzioni si verifichi?
Ancora una volta: nessuno!
Ergo il problema di trovare una pacifica convivenza con gli islamici locali non può essere semplicemente "ignorato", disprezzato o - peggio che mai - sottovalutato. Gli islamici sono qui ora e ci resteranno a lungo, più a lungo di quanto Bitonci resterà sindaco. Se fosse un buon sindaco prenderebbe atto di questo stato di cose e cercherebbe una soluzione praticabile.

Ignorare le richieste di dialogo dei moderati o addirittura additarli come integralisti mascherati è quanto di più sbagliato possa farsi, in queste circostanze: se lo sono davvero non serve a nulla e se non lo sono c'è una discreta probabilità di renderli tali. L'atteggiamento di Bitonci rafforza enormemente i fondamentalisti, che hanno un nemico da indicare ai loro correligionari. Nemico che per estensione diviene l'intera popolazione italiana che ha votato Bitonci (e anche chi non l'ha votato).

L'uomo intelligente che ho sentito l'altro giorno dovrebbe riflettere su questo e muoversi diversamente da come sta facendo: perché sarebbe giusto fare così, e non solo per un voto un più.

martedì 13 gennaio 2015

La guerra del petrolio OPEC - shale USA

La situazione è nota: lo shale oil americano, il petrolio estratto dalle terre argillose e quello delle sabbie bituminose (in Canada) hanno invaso il mercato mondiale nel 2013-2014. Di conseguenza il prezzo del petrolio ha iniziato a scendere. Dopo una prima discesa qualcuno si aspettava che l'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) limasse o tagliasse la produzione in modo da sostenere la caduta dei prezzi. L'OPEC, dominato dall'Arabia Saudita, decide - a sorpresa o prevedibilmente? - di mantenere la produzione ai livelli raggiunti e anzi di lasciar intendere che non ha alcuna intenzione di sostenere i prezzi.
Perché?
Perché il costo di estrazione dello shale oil è assai più elevato del prezzo di estrazione attraverso i pozzi. Pertanto se il petrolio costa poco, i produttori di shale oil non riescono a generare utili dalla loro attività e anzi - se il prezzo è davvero basso - vanno tutti in rosso, in bancarotta, in chiusura, lasciando campo libero e monopolio agli estrattori tradizionali.

(di mezzo ci sta anche un conflitto latente sunniti-sciiti, con i primi ricchi e spendaccioni, i secondi sovrappopolati e in difficoltà politica interna, propensi a sostenere il prezzo del petrolio)

Riassumendo: i produttori arabi cercano di affogare i produttori americani lasciando scendere il prezzo del greggio sotto il break even dello shale oil... questa è la guerra del petrolio attualmente in atto. Gli analisti danno per scontata la vittoria dell'OPEC per numerose ottime ragioni.
1. perché i paesi arabi - dominatori nell'OPEC - possiedono enormi riserve valutarie e sono in grado di resistere per molto tempo alla guerra dei prezzi petroliferi
2. viceversa i produttori di shale oil americani sono indebitati - quasi tutti - fino al collo, e non possono rimanere in piedi se il petrolio rimane più di due mesi sotto i 48$/45$
3. perché i paesi produttori extra OPEC (Russia in primis) non possono permettersi di tagliare la produzione, altrimenti andrebbero in bancarotta.

Tuttavia quello che veramente mi interessa sono le sfumature...
I proventi del petrolio formano più del 90% della ricchezza prodotta ed esportata dai paesi della penisola araba. Con le entrate del petrolio i governi arabi mantengono il loro consenso politico: a. forniscono servizi gratuiti alla comunità; b. (soprattutto) creano milioni di posizioni lavorative nella pubblica amministrazione o nelle società controllate dallo Stato (posti di lavoro la cui produttività è bassissima...); c. le posizioni di cui al punto (b.) consentono a milioni di arabi di formare una classe media che acquista beni di consumo perlopiù prodotti in occidente e acquistati da società commerciali locali per le quali lavorano gli arabi che non hanno un lavoro nelle società di cui sempre al punto (b.).

Altrimenti detto: i governi della penisola araba (e di gran parte dell'OPEC) si comprano il consenso, essenziale alla loro sopravvivenza, con il petrolio. Poiché, come dimostra la Libia, l'estrazione petrolifera regolare dipende dalla stabilità dei governi nei paesi estrattori, nel caso dell'OPEC per valutare accuratamente il costo dell'estrazione petrolifera dovremmo sommare ai costi tecnici dei pozzi anche i costi necessari a mantenere il consenso. Ovviamente gli analisti hanno fatto anche questo con risultati sorprendenti: il costo medio del barile arabo, al lordo del costo politico, oscilla fra 70$ e 100$. In altre parole fintanto che il petrolio rimane sotto i 70$ al barile i governi arabi coprono le spese correnti con i soldi messi da parte per le emergenze: sono, di fatto, in emergenza. Fortunatamente per lei pare che l'Arabia Saudita abbia risparmi per 900 miliardi di dollari.

Vediamo ora il fronte americano...
Nel USA l'estrazione petrolifera innovativa è una'attività economica come altre, tecnologicamente avanzata, normalmente indebitata (forse un po' sopra la norma - ma niente di paragonabile con le recenti bolle speculative) con il sistema bancario; decollata anche grazie a investimenti pubblici. L'economia americana non si basa sull'esportazione petrolifera (che anzi è ricominciata solo nel 2014 dopo più di trent'anni); l'esportazione petrolifera è talmente marginale - per numeri e rilevanza - rispetto al PIL americano, che il governo USA potrebbe addirittura decidere di sovvenzionarla allo scopo di danneggiare un eventuale nemico...
La guerra shale-OPEC in corso, qualora facesse fallire le aziende americane, non danneggerebbe se non marginalmente l'economia americana.
In altre parole il conflitto shale USA-OPEC in corso si prefigura in questi termini:
Il petrolio OPEC è sicuro di vincere e ha le maggiori chances, ma per poter vincere i paesi che lo controllano si giocano tutto. Per i paesi OPEC vincere la guerra in corso non è solo conveniente, è questione di vita o di morte.
Lo shale oil americanano è quasi certamente sconfitto, ma il paese che lo controlla - gli USA - non perde quasi nulla in caso di sconfitta.
In termini di gestione del rischio: a parità di premio (il controllo del mercato petrolifero), uno dei due contendenti si gioca molto più dell'altro...

Più concretamente la guerra sul prezzo del petrolio potrebbe significare la fine dei regimi arabi. Io credo che non l'abbiano ancora capito e questo braccio di ferro fra OPEC e shale oil lo dimostra. Non si rendono conto del fatto che un confronto economico le cui ripercussioni politiche esistano solo per uno dei due contendenti è perso in partenza, perché è la politica che "consente" la gestione dell'attività economica... un errore fatale. La storia dimostra che sarebbe molto meglio, per i paesi OPEC, ridurre la produzione, sostenere il prezzo e cercare di diversificare la propria economia nel minor tempo possibile: approfittare della crisi dei prezzi per ridurre la spesa pubblica e diventare efficienti.

Un errore analogo fu fatto dall'URSS durante la guerra fredda, con in più il livello militare: i russi non capirono che accettare un confronto militare le cui ripercussioni economiche potessero danneggiare solo uno dei due contendenti significava perdere in partenza.

(Immagino che qualcosa di simile avvenga quando la Corea del Nord manda gli impiegati a coltivare i campi per ottenere la stessa resa che negli USA si ottiene impiegando un centesimo della manodopera... se i due iniziassero a competere, durerebbe finché dura il regime nordcoreano - che presumibilmente cadrebbe per primo)

lunedì 12 gennaio 2015

Su uno che "Non mi dissocio [perché non ero socio]"

Ho letto l'opinione di Karim Metref ma devo dire che non mi persuade.... 
http://www.internazionale.it/opinione/karim-metref/2015/01/09/io-non-mi-dissocio
Metref rimane sul filo del rasoio, ma basta una bava di vento a farlo cadere...

All'inizio sostiene il suo diritto a non dissociarsi perché la responsabilità di ogni atto è individuale: 
"Io non ho ucciso nessuno e non c'entro con questa gente". Poi però non è altrettanto individualista quando se la prende con "il sistema della NATO e dei suoi alleati".

Portando agli estremi il ragionamento: 
da una parte ci sarebbero singoli individui "impazziti" che terrorizzano il mondo (solo perché "armati da qualcuno...", secondo Metref; altrimenti, dico io, se nessuno li armasse sarebbero innocui? Non agirebbero in alcun modo? Sono le armi che generano la violenza o viceversa?), singoli che non siamo autorizzati a identificare con comunità più vaste, comunità di fatto nelle quali qualcuno potrebbe entrare senza saperlo;
dall'altra parte invece non ci sono individui colpevoli ma c'è il" sistema della NATO e dei suoi alleati" (ma la NATO non è già un'alleanza? Quali sono gli alleati della NATO?), anziché singoli individui che prendono singole decisioni politico-militari.
Evidentemente Metref crea una contrapposizione squilibrata: il singolo individuo che agisce per conto suo, assumendosi l'onere e l'onore delle sue azioni (che pertanto non richiedono ad altri alcuna "dissociazione") versus un'alleanza di individui, un "sistema" nel quale i singoli sono soci fin dalla nascita.  

Infatti si dirà: i singoli individui a capo della NATO agiscono su mandato popolare, democratico, maggioritario e quindi agiscono a nome, per conto e nell'interesse di tutti gli abitanti dei paesi NATO. Inoltre [la NATO e i suoi alleati] agiscono usando una struttura militare organizzata che non può considerarsi "sciolta", ma che agisce come un sol uomo.

La mia prima obiezione è questa: anche i terroristi incarnano un "mandato" di qualche genere; perché se così non fosse, non li chiameremmo neppure "terroristi" ma "banditi", "criminali di strada". Ma se hanno un mandato, se rappresentano qualcuno allora non sono più "cani sciolti"; inoltre anche i terroristi usano una struttura militare ben organizzata.

Onestamente nessuno può fingere di vedere solo il "mandato" della NATO e dei suoi alleati e non quello dei terroristi. Ammettere tale disparità significherebbe proporci lo scontro fra persecutore (un sistema organizzato che si autolegittima e autoassolve) e una "vittima" designata che nulla sa e agisce in quanto perseguitata da un sistema (il bandito, cane sciolto): qualcosa di simile al confronto fra stato e singolo, fra interesse collettivo e interesse individuale, fra ragion di stato e diritto inalienabile

In seconda istanza bisogna osservare che la lettura relativa a "la NATO e i suoi alleati" lascia pochissimo spazio di smarcatura ai singoli individui: è quasi impossibile per chi vive nei paesi "NATO e suoi alleati", godendone i privilegi dalla nascita, dichiarare "non mi dissocio da un'azione violenta della NATO in quanto sono non-socio della NATO"; secondo la visione che Metref sembra avallare, costui non ha alcuna possibilità di scelta: è compromesso a prescindere, porta con sé un peccato originale ineludibile... che è esattamente il peccato originale additato dai terroristi. Viceversa, dall'azione violenta dei terroristi è possibile smarcarsi fin da principio, pur avvenendo essa dietro "mandato", ovvero secondo i dettami di un'ideologia e non per puro banditismo; da essa è possibile dire "non mi devo dissociare, perché non ero proprio socio". 
Questa è una differenza morale molto importante, implicita nel discorso di Metref: in questo modo il fedele islamico "a la Metref" si smarca da entrambe le parti: dalla NATO e dai terroristi... ma solo lui ha l'opportunità di farlo, o comunque solo un islamico. Ogni abitante non islamico dei paesi NATO è ipso facto compromesso col sistema NATO e da esso non dissociabile.
Quest'ultima è la conseguenza ultima del ragionamento di Metref e non è molto distante, io credo, da tesi apparentemente assai più oltranziste.

L'"Io non mi dissocio" è condivisibile, come calembour, solo "in quanto non sono mai stato socio". Questo sì: B non ha alcun obbligo morale di dichiararsi non-A se è sempre stato B. Ma al tempo stesso è possibile verificare se B sia più simile ad A oppure a non-A




venerdì 2 gennaio 2015

Il problema del pubblico impiego in Italia? la "comfort zone"

"Per “comfort zone” s’intende uno stato in cui la persona opera in condizioni 'neutrali e di non-ansietà' che la portano ad intraprendere un limitato numero di azioni e, di conseguenza, a fornire un costante livello di performance senza assumersi alcun rischio. Meno tecnicamente, una persona si ritrova all’interno della CZ quando si sente non motivato, distratto e mai messo davvero alla prova.", citato da: https://www.linkedin.com/pulse/spingere-i-talenti-fuori-dalla-loro-comfort-zone-landini

La comfort zone è il problema principale di una particolare categoria di dipendenti pubblici italiani: i professori universitari (n.b.: "professori", non "docenti"). Se qualcuno si prendesse la briga di analizzare il numero e la qualità della produzione accademica degli ordinari italiani, e di porre i dati raccolti in un grafico, noterebbe certamente che tale produzione appare sostenuta fino al momento in cui l'ordinariato è raggiunto per poi crollare impietosamente a livello quasi zero. Questo è vero sia per i docenti che arrivano in cattedra a trent'anni, che per quelli che vi arrivano a sessanta. 
L'ordinariato è quindi una Comfort Zone...

Destra, sinistra e codici di condotta

La polarizzazione destra/sinistra nell'occidente contemporaneo è uno strano anello ricorsivo. L'economia non vi gioca quasi più alcu...